Java, ecosistema applicativo ad alta vulnerabilità

Secondo Veracode, società di cybersicurezza che fa capo a Ca Technologies l'88% delle applicazioni Java sono a rischio

Autore: Redazione

Allarme rosso per Java. Secondo i test di sicurezza condotti da Veracode, società di cybersicurezza che fa capo a Ca Technologies (250 miliardi le righe di codice analizzate su un totale di 1.400 clienti) l'88% delle applicazioni Java utilizzate in azienda sono a rischio

I risultati dei test, confluiti nello studio “2017 State of Software Security Report”, hanno evidenziato una serie di rischi connessi all'uso di componenti open source (fino al 75% del codice di una tipica applicazione è costituto da componenti di questo tipo) e uno scarso livello di controllo e consapevolezza fra le aziende sui propri livelli di sicurezza. Solo il 28% dei clienti di Veracode, infatti, esegue regolarmente analisi al fine di comprendere quali siano i componenti presenti nelle proprie applicazioni.



I problemi riguardano innanzitutto il software non precedentemente testato: il 77% delle app presenta almeno una vulnerabilità in sede di prima scansione, e nel 12% si trattava di un difetto grave. Tra i settori, le organizzazioni governative non possono certo vantare livelli di sicurezza migliori della media, anzi: nell'ultimo scanning hanno ottenuto un tasso di superamento del test di appena il 24,7% e hanno registrato la più alta prevalenza di vulnerabilità altamente sfruttabili, quali cross-site scripting (49%) ed Sql injection (32%).

L’uso di componenti per lo sviluppo applicativo è un pratica diffusa, che consente agli sviluppatori di riutilizzare codice funzionale e, quindi, di accelerare il rilascio del software. Il rovescio della medaglia è che, in caso di vulnerabilità, i cybercriminali hanno davvero vita facile: “L’impiego universale di componenti per lo sviluppo applicativo”, ha commentato il chief technology officer di Ca Veracode, Chris Wysopal, “implica che, quando emerge una vulnerabilità a carico di un componente, essa possa potenzialmente interessare migliaia di applicazioni”. Può dunque bastare un unico exploit per colpire e violare molte applicazioni differenti. Non mancano le dimostrazioni, purtroppo.

Fra i casi eclatanti degli ultimi mesi, un esempio di vulnerabilità di vaste proporzioni a livello di componenti è stato Struts-Shock, scoperto nel marzo 2017. Stando all'analisi di Veracode, il 68% delle applicazioni Java basate sulla libreria Apache Struts 2 persisteva nell'utilizzare una versione vulnerabile del componente anche nelle settimane successive ai primi attacchi. Questa vulnerabilità critica presente nella libreria Apache Struts 2 riguardava decine di milioni di siti Web (35 milioni, secondo Veracode) e ha permesso ai criminali informatici di sferrare delle offensive di tipo Remote Code Execution basato su iniezione di comandi.

Tra i bersagli colpiti spiccano i siti dell’Agenzia canadese delle Entrate e dell’Università del Delaware.  I test di Veracode hanno anche evidenziato che oltre la metà (53,3%) delle applicazioni Java si fonda su una versione vulnerabile dei componenti Commons Collections. Versione risalente al 2016 e oggi notoriamente fallata, ma ancora impiegata in moltissime applicazioni vecchie e nuove.  

L'open source è quindi da condannare? No, ma bisogna elevare i livelli di controllo e anche la velocità di risposta alle vulnerabilità scoperte. Dalle analisi di Veracode è emerso che solo il 22% dei difetti gravi è stato risolto in meno di un mese, mentre agli aggressori bastano tempi molto più brevi, pochi giorni, per individuare e sfruttare una debolezza del software.

“I team addetti allo sviluppo non smetteranno certo di utilizzare i componenti, ed è giusto che sia così”, ha commentato Wysopal. “Quando però compare un exploit, il fattore tempo è fondamentale. I componenti open source e di terze parti non sono necessariamente meno sicuri del codice sviluppato in casa, ma è essenziale mantenere un inventario aggiornato delle versioni utilizzate per ogni componente”.

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