L'adozione di
soluzioni innovative nei datacenter oggi è in generale molto più rapida che in passato. Anche considerando questo aspetto, però, la velocità con cui gli
ambienti di virtualizzazione basati su container si sono affermati sul mercato ha sorpreso molti osservatori, specie se rapportata alla relativa lentezza con cui l'approccio considerato alternativo - le macchine virtuali - ha conquistato le imprese.
La statunitense
Diamanti, che offre
soluzioni per la gestione degli ambienti appunto basati su container, ha condotto un'indagine per
valutare le caratteristiche chiave che rendono i container così interessanti per le aziende. Si sa che le loro prerogative di elasticità e impatto ridotto sui sistemi sono le più apprezzate tecnicamente, l'indagine di Diamanti ha voluto andare più in profondità, mettendo in evidenza cinque punti chiave.
Container e VM coesistono
Container e macchine virtuali rappresentano due approcci diversi alla gestione dei workload ma nei datacenter
sono destinati a convivere ancora per molto tempo. Per i puristi dei container eseguirli direttamente bare-metal, ossia senza una base sottostante di hypervisor e macchine virtuali, è la strada migliore. Ma le imprese mediamente
non hanno gli strumenti e le competenze per farlo, tanto che solo una minoranza (44%) del campione esaminato da Diamanti intende sostituire le macchine virtuali in uso con i container (o lo ha già fatto).
La strada più diffusa è la convivenza dei due approcci, che si
bilanciano in modo diverso a seconda della specifica impresa. La fetta maggiore (43%) del campione della survey mostra una
posizione aperta: indica che nel breve periodo intende mantenere la maggioranza dei workload ancora su macchine virtuali, ma che una parte rilevante dei carichi passerà ai container. Il 36% ha una posizione nettamente pro-VM, mentre il 21% intende migrare la maggior parte di suoi workload sui container.
Le applicazioni principali
Le aziende coinvolte da Diamanti hanno indicato i
principali casi d'uso per cui adottano o adotteranno i container. Prevedibilmente, si conferma il collegamento tra container e sviluppo cloud: il 54% del campione userà i container per creare applicazioni cloud-native e il 39% per servizi stateless (in maggioranza
microservice, ma non solo).
È più interessante notare che fette significative del campione
usano i container per migliorare l'esistente, ossia per modernizzare le applicazioni legacy (31% di citazioni) e in generale per il loro passaggio al cloud (32%). Spiccano anche il 30% che usa i container in ambito database e il 21% che li usa per realizzare
applicazioni stateful. I container sono quindi alla base di applicazioni sempre di nuova concezione ma più tradizionali dei microservizi, il che secondo Diamanti indica come essi possano sostenere
anche le applicazioni business-critical delle imprese "classiche".
Chi spinge i container
I container sono un tema considerato "da tecnici" e di basso livello, che sta però coinvolgendo anche le figure aziendali che guardano alle tecnologie
con una visione più ampia. L'analisi di Diamanti mostra che a spingere verso l'adozione dei container sono ancora le figure tecniche, in primo luogo gli architetti IT (22% di citazioni) e gli sviluppatori (21%). Ma stanno facendo sentire la loro influenza anche coloro che si occupano delle IT operations (17%) e
persino i dirigenti C-level (9%).
Questa dimanica ovviamente
agevola lo sblocco degli investimenti per le migrazioni ai container. E lo si vede nei numeri: nel 2018 la metà circa delle aziende consultate da Diamanti ha investito
oltre 50 mila dollari per la migrazione. La fascia top ha attivato investimenti per oltre 500 mila dollari e comprende il 12% del campione. Sembrano, specie la prima, cifre basse ma vanno rapportate alla dimensione complessiva degli investimenti IT delle imprese.
Più semplicità, meno costi
Questi investimenti devono avere un ritorno e le aziende che migrano con più decisione verso l'approccio a container ne vedono diversi. Uno però spicca sugli altri:
ridurre il peso della parte di gestione, fattore indicato dal 59% del campione come il principale per la migrazione. Una percentuale elevata ma che va presa con un po' di prudenza, perché non è chiaro se il raffronto venga sempre fatto tra ambienti con solo macchine virtuali e la virtualizzazione con container bare-metal.
L'impressione è che una fetta importante di quel 59% giudichi complessi gli ambienti in cui i container sono eseguiti da macchine virtuali. È uno scenario che
di sicuro non è il più efficiente ma che in effetti molte imprese stanno adottando per ragioni comprensibili (come avere
container più isolati) e per altre meno ("forzare" l'uso dei container in ambienti più tradizionali).
Non ci sono invece dubbi su un altro fattore, segnalato dal 38% del campione: si passa ai container per
spendere meno in licenze VMware. Le aziende "indagate" da Diamanti hanno una spesa cospicua in licenze - la fetta maggiore (20%) spende tra 100 e 250 mila dollari l'anno, mentre la spesa top di oltre 500 mila riguarda il 18% - e quindi passare anche parzialmente ai container ha un effetto immediato sui conti.
Chi ci guadagna
Le aziende sono ben consce che questa dinamica ha
effetti sul mercato in generale. Il 40% del campione ha indicato che VMware è l'azienda che ha più da perdere dall'affermazione dei container, lasciando Microsoft a un lontano secondo posto (20%). La percezione è quindi che VMware e Microsoft siano collegate a un
modello tradizionale di computing e che l'evoluzione tecnologica le stia lasciando indietro.
Questa dinamica
va a vantaggio di Amazon, secondo le imprese. Il 70% indica infatti che della crescita dei container ne beneficerà soprattutto AWS, con in seconda battuta Docker (51%). C'è però ancora
un po' di confusione, evidentemente, perché dietro ad AWS e Docker ci sono Microsoft (37%), Google (ancora 37%) e VMware (21%): tre aziende di cui due sono indicate anche come danneggiate dai container. La morale da trarre, probabilmente, è più semplice: i container sono strettamente
associati con il mondo cloud e la loro crescita viene quindi considerata come un fattore di spinta per i cloud provider.