Le grandi aziende hanno
sempre più bisogno di piattaforme per il
supercomputing ma incontrano spesso difficoltà nel gestire i cluster di sistemi che, di norma, sono usati per le applicazioni scientifiche, di simulazione e modellazione matematica, di analytics e di intelligenza artificiale. È la considerazione da cui Cray è partita per sviluppare
Cray Shasta, un nuovo sistema di supercomputing che debutterà ufficialmente tra un paio di settimane alla
Supercomputing Conference di Dallas.
Cray non nega che oggi le architetture di elaborazione ad alte prestazioni debbano essere
particolarmente versatili ed elastiche. L'innovazione di Shasta sta nel fatto che in esso è possibile mettere insieme nodi diversi, basati anche su architetture di processori differenti, ma avendo comunque la
semplicità di gestione di un sistema unico, quasi monolitico.
È un approccio che Cray definisce
data-centric, nel senso che l'utente può usare le risorse che giudica più opportune in funzione degli specifici workload. Questo anche grazie al fatto che, nello sviluppo di Shasta, Cray ha portato a bordo come partner tecnologici
i principali nomi dell'hardware ad alte prestazioni. Tra questi ci sono in particolare AMD, Intel e Marvell per la parte processori, Mellanox per la connettività e Nvidia per le GPU dedicate al machine learning.
Un sistema Cray Shasta può, in estrema sintesi, essere visto come
un cluster di nodi di elaborazione estremamente integrato, in cui possono coesistere piattaforme di computing diverse (X86, Arm, GPU, FPGA, acceleratori di AI) interconnesse da collegamenti a larga banda (InfiniBand, OmniPath e la nuova tecnologia Slingshot di Cray).
Questo approccio, secondo Cray, permette di avere una notevole
flessibilità nell'allocazione dei workload e soprattutto una grande scalabilità di tutto il sistema. L'architettura modulare permetterà anche di integrare in Shasta le componenti di elaborazione che nasceranno in futuro, tanto che secondo Cray un sistema Shasta è “
future proof” per la prossima decade.
Cray Shasta sarà proposto in
due configurazioni di partenza. La più "semplice" è un rack standard per datacenter raffreddato ad aria o a liquido. In alternativa ne esisterà una versione rack non standard, a maggiore densità e raffreddata a liquido, progettata per contenere
64 blade multi-processore. Entrambe le versioni possono crescere fino a più di cento cabinet.
Per vedere i supercomputer Shasta in azione nei grandi datacenter ci vorrà del tempo: Cray prevede di commercializzarli non prima dell'
ultimo trimestre 2019. L'azienda ha comunque messo già in carniere un progetto significativo: un Cray Shasta sarà al cuore di un nuovo sistema del National Energy Research Scientific Computing Center, che fa capo al Department of Energy statunitense. Il progetto è valutato circa
146 milioni di dollari ed è uno dei più remunerativi della storia di Cray.
La natura di questo primo progetto con Cray Shasta dà anche un segnale su
quali potranno essere i suoi ambiti di implementazione. Cray dichiara di puntare al segmento enterprise di vari mercati - che poi è il suo “campo da gioco” tradizionale - ma in effetti non sono poi molti i settori in cui le aziende private hanno la necessità di un sistema così articolato e, prevedibilmente, costoso. È quindi assai probabile che Shasta trovi spazio soprattutto nei grandi centri di ricerca, come accade per buona parte dei supercomputer, e
progressivamente anche negli ambienti cloud dei grandi hyperscaler.
Infatti i futuri
sistemi exascale - ossia quelli capaci di potenze nella scala degli exaflop, livello a cui Shasta non è ancora ma promette di arrivare in un paio di anni - saranno spesso resi disponibili a chi li vuole utilizzare come probabilmente lo saranno i futuri sistemi di
quantum computing: attraverso
servizi mirati di cloud pubblico. È la soluzione migliore per combinare due necessità divergenti: da un lato il costo dei sistemi HPC li mette alla portata di pochi, dall’altro la platea che ne può trarre vantaggio si amplia sempre di più.