Ricordate
Minority Report? Nel film, e nel racconto di Philip Dick da cui è tratto, i criminali venivano arrestati ancora prima di commettere i loro reati perché c'era
chi li prevedeva in anticipo. In Minority Report servivano poteri di precognizione, ora c'è chi ritiene di poter arrivare a risultati paragonabili senza nulla di così esoterico ma con i "poteri" della
intelligenza artificiale. In questo campo rientra anche il
predictive policing, la "sorveglianza predittiva" che applica algoritmi di machine learning ai dati storici della criminalità.
Il predictive policing parte dal presupposto che ci siano
regolarità identificabili nella distribuzione dei crimini all'interno delle grandi città come dei piccoli centri urbani. La software house che viene più spesso associata al predictive policing - e che si chiama, in maniera non troppo originale,
PredPol -
spiega che la sua soluzione parte da una
base dati storica dei crimini (idealmente da due a cinque anni di dati) e da questa, arricchita poi nel tempo dalle successive registrazioni di crimini, arriva a
previsioni su dove un determinato tipo di crimine più probabilmente si verificherà.
L'area urbana controllata con il predictive policing di PredPol viene suddivisa in una griglia con "celle" di 150 x 150 metri, per ciascuna cella è possibile avere
la probabilità che un dato crimine si verifichi in un dato lasso di tempo. Queste stime dovrebbero servire alla polizia locale per ottimizzare la distribuzione delle forze dell'ordine durante i turni, in modo da
prevenire i crimini in maniera più mirata rispetto al normale.
Non è possibile capire chiaramente quando il predictive policing sia diffuso tra le amministrazioni locali, che raramente danno risalto all'adozione di soluzioni simili, quindi non è nemmeno possibile capire
quanto sia efficace. Una base teorica effettivamente esiste, perché secondo diversi studi di criminologia ci sono correlazioni tra struttura dell'ambiente urbano e distribuzione dei reati. Correlazioni che in parte sono provate
anche dal semplice buon senso: è logico che certi tipi di crimini siano più frequenti in aree poco illuminate o scarsamente visibili dai passanti.
Passare da considerazioni di buon senso alla quantificazione della probabilità effettiva di un crimine però non è scontato. E comunque ha i suoi limiti. Innanzitutto le cosiddette
teorie ecologiche della criminalità si concentrano su
crimini comuni, che vanno dal vandalismo ai furti nelle abitazioni. Per questi si può arrivare a definire correlazioni ambientali, mentre man mano che i crimini si fanno più "seri" le regolarità si fanno più difficili da definire.
Ma il punto principale messo in evidenza dai critici del predictive policing è che i dati storici su cui esso si basa
non sono quasi mai oggettivi. Alcune aree urbane sono caratterizzate da una maggiore quantità di piccoli reati semplicemente perché sono state sottoposte a un maggiore controllo da parte della polizia, non perché siano effettivamente più "criminali" di altre. Come in ogni applicazione di machine learning, questo
"pregiudizio" dei dati di partenza si traduce in algoritmi inefficaci.
Un altro punto di contrasto concettuale è nell'
utilità a lungo termine del predictive policing. Chi lo sostiene parte (anche) dal presupposto che non reprimere i reati minori porti a un clima generalizzato di illegalità che
favorisce comportamenti criminali più gravi. Nota anche come "teoria della finestra rotta", questa visione della criminalità urbana però è piuttosto controversa. Alcuni esperimenti sembrano confermarla ed altri smentirla, con il risultato che può essere messa a servizio di qualsiasi punto di vista.
È comunque difficile che queste considerazioni rallentino lo sviluppo di
applicazioni di analytics anche nel campo della prevenzione dei reati. Il
monitoraggio ambientale è uno dei tanti settori in cui qualsiasi aumento dell'efficienza è benvenuto, da qui ad esempio l'utilizzo sempre più esteso della videosorveglianza. Il predictive policing è solo un elemento in più.