I sistemi
HPC sono
storicamente on-premise e legati a codice ed algoritmi fortemente ottimizzati per il problema specifico da affrontare. E per il sistema stesso su cui saranno eseguiti. Questa per ammortizzare nel tempo l’
investimento iniziale nella realizzazione del sistema HPC stesso, investimento che è molto elevato. Il parallelo con il mondo mainframe viene spontaneo. Come anche una domanda collegata all’evoluzione che dai mainframe ha portato all’IT attuale. È possibile
traghettare la visione classica del HPC al modello del
cloud?
I principali cloud provider ci credono decisamente. Tanto che lo
High Performance Computing in cloud è previsto in crescita più del mercato HPC complessivo. Circa il 12 percento l’anno da qui al 2024, per la precisione. È il mondo HPCaaS, o
HPC-as-a-Service. Che secondo alcune stime rappresenterà nel 2023 il 43 percento di tutto il comparto HPC.
Stime aggressive. Plausibili solo se consideriamo come “HPC in cloud” l’offerta di istanze di
macchine virtuali ad alte prestazioni. Che l’utente può
comporre in cluster, con connessioni ad alta velocità tra i nodi. Per i puristi questa è la base dei sistemi HPC, non High Performance Computing in senso stretto. Una distinzione che per le molte imprese nuove potenziali utenti del HPCaaS è però poco più di un tecnicismo.
Infrastrutture da comporre
Resta il fatto che al momento anche le migliori offerte HPCaaS
non possono essere proprio “plug and play”. I componenti di base sono comunque adeguati. Con macchine virtuali basate su processori Intel Xeon ad elevato grado di parallelismo, storage NVMe e connettività InfiniBand. Ma i componenti vanno poi combinati opportunamente insieme dagli utenti, che quindi devono avere le
giuste competenze in campo HPC.
Anche per questo, a spingere il mercato HPCaaS saranno le grandi imprese che
già posseggono sistemi HPC. Per loro il cloud è una risorsa in più. Dove
portare workload meno importanti rispetto a quelli critici, che restano nei sistemi HPC on-premise. Un po’ la stessa evoluzione che il cloud generico ha avuto qualche anno fa.
I dati danno comunque ragione ai sostenitori del cloud. Se la promessa del HPCaaS non fosse fondata, ad esempio, non troveremmo supercomputer “virtuali” nella classifica Top500. Cosa che invece
accade da anni. Nell’edizione dello scorso giugno, al 136mo posto c'era un
supercomputer virtuale da 1,9 petaflop. Realizzato attraverso la combinazione di ben 41.472 core “distribuiti” su istanze Amazon EC2 nel cloud di AWS.
HPCaaS: un occhio critico
Esempi come questo sono il segno di una
transizione inevitabile? O casi sporadici che andrebbero esaminati più in profondità? Secondo gli esperti di HPC, entrambe queste considerazioni sono in parte vere.
Un vantaggio tipico del cloud c’è infatti anche nel mondo HPCaaS: il
basso costo di entrata. Un fattore importante per le imprese che dal supercomputing sono sinora state tagliate fuori. Meglio spendere qualche decina di migliaia di euro per un supercomputer virtuale che spenderne centinaia di migliaia, o milioni, per un vero sistema HPC. Ma attenzione: nelle applicazioni HPC una componente chiave è la
gestione del traffico dati tra i nodi del sistema. Un aspetto su cui non tutti i cloud provider offrono necessariamente prestazioni sufficienti.
Poi c’è da considerare il costo legato al
trasferimento al cloud dei dati da elaborare e al download dei risultati. Tutto considerato, secondo i più critici, una soluzione HPCaaS di fascia alta potrebbe addirittura costare più dell’equivalente on-premise. Il
costo complessivo, quindi, va valutato caso per caso.
È un’altra freccia all’arco di chi vede il prossimo futuro concentrato sul
cloud computing “ibrido”. Ossia con una infrastruttura on-premise che viene affiancata da servizi HPCaaS di fascia alta. Da attivare per picchi di carico o per applicazioni mirate. Il cloud ibrido, in fondo,
ha già vinto anche per l’IT tradizionale.