Quando la diffusione di Sars-CoV-2 non era ancora una pandemia, per il mondo IT rappresentava un unico problema. Il rallentamento, se non proprio il blocco, della
produzione nelle aziende cinesi. Se queste non producono, una grandissima parte dei prodotti IT ed elettronici non arriva sul mercato. Tutte le aziende oggi cercano di ridurre al minimo gli stock di magazzino. Quindi se la produzione rallenta
non ci sono grandi margini per assorbire questa frenata.
Poi è arrivata la pandemia e il problema è passato in secondo piano, rispetto all'emergenza sanitaria. Si è sentita la mancanza non di PC e smartphone ma di mascherine, dispositivi medici, camici, disinfettanti. O di diversi generi "indispensabili" - definizione quantomai generica, perché ciascuno la applica a quello che ritiene meglio - che tutti siamo abituati a trovare con facilità. E che invece, abbiamo imparato,
hanno dietro una supply chain. Magari nemmeno complessa, comunque vulnerabile. Più di quanto ci aspettassimo.
Nelle settimane dell'emergenza coronavirus abbiamo visto esempi lodevoli di
conversione delle produzioni. Da Armani che fa camici per ospedali a Ramazzotti che fa disinfettanti. Come anche diversi marchi della cosmetica, anche di lusso. Sono ripartite le produzioni di prodotti - come i ventilatori polmonari - che si erano delocalizzate altrove. E sulle mascherine è scattato l'ingegno a moltissime imprese, che venissero dai pannolini o dal tessile. E via dicendo.
Quello che l'Italia - e se è per quello, gran parte delle nazioni - non può certo fare è riconvertire qualche produzione a favore dell'IT. Tranne rare eccezioni, la componentistica dell'IT mondiale
viene dalla Cina e da poche altre nazioni asiatiche. Una scelta che le imprese tecnologiche hanno fatto molto tempo fa. E che, post coronavirus, non è più così affascinante.
Non che dovessimo avere una pandemia per porci il problema. Ma certamente Covid-19
aiuta chi vorrebbe un "reshoring" massiccio di certe produzioni. Il confronto USA-Cina che va avanti da tempo verte anche su questo aspetto. L'Europa a modo suo ci pensa, con programmi che cercano di spingere
l'innovazione, e il relativo sviluppo dei mercati, in tutti i campi. Dall'elettronica all'
intelligenza artificiale passando per il
green.
Una delocalizzazione "globale"
Il rischio associato alla centralizzazione - delle risorse, della produzione, della distribuzione -
lo abbiamo sperimentato a più livelli. Non solo nelle produzioni. Risorse come i servizi cloud per la collaboration sono andate in crisi, al crescere della domanda. Reti di distribuzione (in senso lato) come le reti dati
hanno rischiato di vacillare. La distribuzione fisica alla Amazon ha avuto i suoi problemi. Ma anche quella dei grandi supermercati nazionali, per forza di cose. E così
abbiamo riscoperto il locale. Il piccolo produttore, o il piccolo negozio. Che sino a qualche tempo fa ci sembrava, magari, un retaggio del passato non globalizzato.
Lo Speciale di ImpresaCity dedicato alle risorse IT messe in campo contro la pandemia
La globalizzazione non si può eliminare. Che ci piaccia o meno, ormai tutto il pianeta è interconnesso. Proprio la pandemia ne è un esempio incisivo. Ma ci sono segnali ormai evidenti che
il trend verso il regionalismo si è rafforzato. Attenzione: regionalismo, non nazionalismo. Nessuna nazione, o quasi, può fare tutto veramente da sola. Ma le "region" in senso anglosassone - quindi Nord America, Europa, Asia - con tutta probabilità cercheranno di diventare mercati più autonomi.
Che c'entra l'IT? C'entra perché
la tecnologia è il mezzo con cui il regionalismo si può sposare con la globalizzazione. Un matrimonio indispensabile perché qualsiasi azienda, passata una certa soglia di dimensione, non può limitarsi al mercato continentale. Per chi ha, o vuole, una supply chain globale l'obiettivo è quello gli americani sintetizzano in "make it where you sell it". Produci là dove vendi. O comunque abbastanza vicino. Un reshoring o
nearshoring delocalizzato, anche se sembra una contraddizione in termini.
Delocalizzare una supply chain è impossibile senza una buona dose di tecnologia. Magari la smart factory completamente automatizzata e controllata da remoto è ancora un'utopia. Ma automazione, robotica, edge computing, digital manufacturing, IoT, digital twin e tecnologie simili
sono già sul mercato. Serve magari che l'offerta sia meno frammentata. Che qualcuno la metta insieme per offrire soluzioni verticali quasi "chiavi in mano". È una opportunità.
Questo per i prodotti. Ma il ragionamento
vale anche per i servizi digitali. E si inserisce in una tendenza che era già evidente in ambito cloud. Da tempo nessuna azienda vuole dipendere da un unico provider. Ora non ama dipendere da un provider con data center chissà dove. Per questioni di performance ma sempre più di privacy. Anche qui vedremo una
spinta alla decentralizzazione. Non necessariamente - ma non sarebbe male - verso la scelta di provider locali,
anche piccoli. Ma certo verso pretendere risorse e data center geograficamente vicini.
Con un effetto collaterale interessante sullo
sviluppo delle infrastrutture. Finora si poteva anche ammettere (lontanamente) il permanere di un digital divide infrastrutturale. Ora molto meno. Digitalizzare serve ed è servito a
mantenere in piedi molte imprese. Bisogna investire perché questa possibilità sia data a tutti. Non solo a chi ha la fortuna di vivere o lavorare
nelle aree più remunerative per gli operatori. Il 5G può servire
anche a questo.
La decentralizzazione urbana
È un trend che dobbiamo incrociare con considerazioni più sociali e apparentemente meno tecnologiche. Ma appunto solo apparentemente.
Il trend verso l'inurbamento è costante e, in molte zone del mondo, inarrestabile. Ma in altre, specialmente nelle nazioni più industrializzate e digitalizzate, il
presunto fascino delle megalopoli è in calo. Nelle generazioni più giovani lo era già, la pandemia promette di estendere questo contro-trend.
Non è solo il fatto che le città sono diventate, per ovvie ragioni di concentrazione di abitanti, zone a maggior rischio di contagio. Anche i piccoli centri da questo punto di vista non sono stati risparmiati. In Italia lo abbiamo sperimentato in modo particolare. Conterà probabilmente di più che il boom dello smart working ha dimostrato che
non è necessario essere fisicamente in azienda per essere produttivi. Lo ha dimostrato a chi fa da anni fatica ad accettare il telelavoro. Gli altri, bene o male, già lo sapevano.
Idealmente il post-coronavirus può portarci un
modo migliore di concepire lo spazio di lavoro. Andando oltre i concetti di mobile working e smart working che abbiamo visto sinora. Certo servono strumenti migliori e più amichevoli per la comunicazione e la collaboration. Servono anche reti e infrastrutture migliori. E
una mentalità diversa di gestione e organizzazione del lavoro. Sarebbe però un vero peccato non sfruttare almeno una sola ricaduta positiva dell'emergenza.
Un nuovo smart working -
e non solo telelavoro - consente di essere al lavoro da ovunque, con efficacia. Quindi permette a chi lavora di vivere dove ritiene meglio. O comunque di avere una maggiore possibilità di scelta. E non è detto che questa scelta sia in favore delle grandi città. Con
ricadute che sarebbero positive per tutti, non solo per dipendenti e collaboratori. Le aziende non dovrebbero mantenere costose sedi per molte persone. Le città potrebbero ridimensionare i propri servizi, ovviamente in ottica smart. Le opportunità insomma ci sono. Vedremo chi saprà coglierle meglio.