"
Hybrid is the new data center. Period".
Paul Cormier, al suo primo Red Hat Summit (virtuale)
da nuovo CEO della software house, non lascia spazio a dubbi tecnologici. Peraltro improbabili, dato il tema. Per le aziende oggi
la direttrice principale è quella del cloud ibrido. Che è la soluzione ottimale per la loro infrastruttura IT. In una accezione non tecnica il cloud è poi stato recepito dalle imprese come un modello. È cioè "
inteso come capacità di consumare la tecnologia in maniera semplice, trasparente ed omogenea", spiega Cormier. Dato che il cloud oggi è comunque un multicloud, questo impone la portabilità dei workload tra le varie "nuvole".
Ecco perché Red Hat da tempo preferisce parlare di
open hybrid cloud, più che di hybrid cloud puro e semplice. Una
visione di apertura che deve progressivamente comprendere i vari scenari applicativi presentati dai clienti. Molti sono già perfettamente in linea con l'approccio classico di Red Hat. Basato su OpenShift, quindi integralmente su container, Kubernetes e RHEL.
Molti non vuol dire tutti, però. Così l'annuncio principale del Red Hat Summit va incontro alle esigenze di aziende meno "pure". Che hanno una visione più tradizionale della virtualizzazione. E che, soprattutto, su questa hanno investito.
Il riferimento è alla virtualizzazione mediante
non container ma macchine virtuali. I container sono la scelta logica per le nuove applicazioni cloud-native. Ma la scelta di abbandonare le macchine virtuali non è semplice per nessuna impresa. O si scrivono nuove applicazioni, oppure si deve adattare il codice che si ha ad una nuova logica di funzionamento. Un compito non banale. Che di fatto
tiene lontano dai container molti utenti. E che, dal punto di vista di Red Hat, potrebbe avvicinarli a piattaforme diverse dalle proprie. Che promettono una coesistenza pacifica tra container e VM.
Paul Cormier, CEO di Red HatEcco quindi il lancio di
OpenShift Virtualization. In sintesi, la
possibilità di gestire macchine virtuali e container insieme, in un ambiente Kubernetes. Unendo così applicazioni tradizionali, più adatte alle macchine virtuali, con quelle cloud-native e anche con le funzioni serverless. Potendo anche, ed è un altro vantaggio,
combinare le rispettive funzioni tra loro. L'integrazione in Kubernetes non è cioè legata solo alla gestione. È totale, con la possibilità di combinare i servizi dei vari componenti applicativi, vecchi e nuovi.
L'open contro il quasi-open
È inevitabile collegare OpenShift Virtualization allo sviluppo di
Project Pacific di VMware. Entrambi i progetti puntano alla
coesistenza tra macchine virtuali e container in un ambiente Kubernetes. Ma i punti di partenza sono opposti. VMware parte dall'esigenza di salvaguardare il mondo vSphere e traghettarlo verso la containerizzazione. Red Hat parte da questa, per coosì dire "in purezza", e cerca di accogliere in Kubernetes le macchine virtuali.
Red Hat è ovviamente
ben conscia del paragone con Project Pacific. E nemmeno vi si sottrae. Sottolineando in primis l'importanza del fatto che comunque tutte le direttrici
convergano su Kubernetes. Ma anche evidenziando che l'impostazione di VMware non è completamente aperta e open source, nella piena filosofia della containerizzazione. Nemmeno può esserlo, in realtà. Proprio perché la strada scelta dalla casa di Pat Gelsinger è "addomesticare" Kubernetes nell'ambito di vSphere. E
proteggere il proprio pregresso. Storie diverse, approcci diversi. L'importante è che le aziende abbiano una possibilità di scelta sempre maggiore.
Per Red Hat comunque la sua filosofia di fondo
resta il fattore di distinzione vincente. "
Molti vendor sono saliti sul treno dell'open source e dei container - sottolinea Paul Cormier -
ma spesso hanno da proteggere elementi legacy e fanno confusione ad arte... Stanno mischiando l'open source con tecnologie proprietarie, non propongono soluzioni completamente aperte". Per il nuovo CEO non è una nuova sfida perché è sempre stato così. "
La differenza - spiega -
è che oggi l'open source e Linux sono al centro dell'innovazione nei data center".
Red Hat Summit: le altre novità
In confronto ad OpenShift Virtualization, le altre due novità lanciate al Summit sono di taglio evolutivo. La nuova
versione 4.4 di OpenShift vede diversi miglioramenti nella parte di monitoraggio dei workload e nelle funzioni per gli sviluppatori. Soprattutto, adotta il modello dei
Kubernetes Operator per automatizzare alcune funzioni di gestione e implementazione della piattaforma. L'utilizzo degli Operator semplifica, nelle intenzioni, le implementazioni di OpenShift in ambienti di cloud ibrido.
La seconda novità è
Red Hat Advanced Cluster Management for Kubernetes. Si tratta in sintesi di una piattaforma per gestire cluster Kubernetes variamente distribuiti. Tra on-premise, cloud ibrido e public cloud. Il vantaggio non è solo avere un unico punto di controllo per la gestione dei cluster in maniera coerente. Sta anche nel fatto che la gestione può essere
governata automaticamente attraverso policy. Le quali si applicano indifferentemente al "luogo" dove si trova un cluster.
Red Hat Advanced Cluster Management for Kubernetes ha poi la particolarità di essere un primo esempio di
integrazione tra Red Hat e IBM. In origine era infatti un progetto di quest'ultima, che è stato assorbito e portato a termine da Red Hat.