Partiamo dalla cronaca:
povera app Immuni. A marzo sembrava che avesse fatto fare a tutto il sistema-Italia il salto dall'oscurantismo digitale al pensiero Gen Z. Metti insieme app, open source e pure la benedizione tecnologica di Apple e Google, che ti manca? Siamo a novembre e dell'app Immuni
c'è quasi imbarazzo a parlare, nel caos generale del secondo
blocco-che-non-deve-essere-nominato, se non per criticarla un po' (troppo facile,
adesso) e archiviare la faccenda. Invece oggi fa bene parlare di Immuni. Non perché non ha funzionato come si voleva ma come sintomo della
pericolosa abitudine italiana a considerare la tecnologia come una panacea per mali che invece vanno curati anche con altro.
L'errore da evitare è "collezionare" le tecnologie invece di recepirle davvero. Tornando a Immuni, il nostro esempio simbolico, in nazioni come Singapore o la Corea del Sud il tracciamento via app ha funzionato non solo perché è stata fatta un'app. Ma perché le informazioni del tracciamento via smartphone sono state combinate con molte altre, analizzate e sfruttate.
Noi ci siamo fermati al primo passo: la tecnologia più o meno c'era, mancava una visione di come integrarla con il resto.
Le tecnologie
non nascono e non vivono in una bolla. Serve comprenderle, contestualizzarle rispetto al proprio scenario d'uso, considerarle in una prospettiva almeno di medio periodo. Che la politica italiana questo non sappia farlo, è un dato di fatto e non da oggi. Alle competenze possono pensarci gli esperti, i tecnici (ma anche qui, che fatica...).
Contestualizzazione e prospettiva sarebbero cose della politica, che però da noi ragiona sul brevissimo periodo dell'uovo oggi invece della gallina domani (e magari di tutto il pollaio dopodomani). Ci abbiamo fatto il callo, pazienza.
L'esortazione è che questo limite
non passi dalle stanze dei bottoni al mercato. Anche a chi propone prodotti e servizi si chiede una visione: a cosa servono davvero le sue tecnologie, che prospettive di sviluppo hanno, in quale concezione di azienda digitalizzata si muovono. Certo,
spiegare tutto questo è più complicato che dire "ecco il prodotto giusto per te". Ma premia, e in fretta, perché gli imprenditori hanno tutte le capacità e l'interesse per stare a sentire.
Ovviamente, c'è l'altro lato della medaglia. Non si vendono miracoli tecnologici,
nemmeno si devono chiedere. Le tecnologie della digitalizzazione sono sì "trasformative", non però nel senso che trasformano qualcosa che non funziona in un prodotto o un servizio di successo.
Anche qui c'è una visione in gioco. Quella aziendale, che deve mettere sul tavolo l'imprenditore: cosa fa in rapporto alla domanda del mercato, dove vuole andare, come intende farlo, con chi.
Da noi il termine "visione" ha una connotazione negativa, tra l'ascetico e il lisergico. Altrove no. C'è chi proprio ama farsi definire "visionary". Anche sui biglietti da visita. E infatti di visionari abbiamo bisogno. Anche nell'IT. Servono a delineare un percorso motivato, a puntare verso un obiettivo, anche se magari appare ambizioso (anzi, meglio se lo è). Senza una visione invece la prospettiva manca:
c'è solo un presente in cui davvero tutto deve essere rivoluzionario, quasi magico, perché non c'è tempo per altre soluzioni. Messe così le cose, e potendo scegliere, non è meglio essere visionari?