Si parla da tempo del fenomeno
big data, per sottolineare come la quantità di informazioni da analizzare e conservare nelle aziende stia continuamente crescendo. Tuttavia,
Veritas evidenzia in uno studio, condotto su 1.475 intervistati (100 in Italia), che molti dei dati conservati rischiano di essere inutili o quantomeno dal valore incerto e non controllato.
Nel nostro paese, secondo la ricerca denominata "
Databerg Report 2015", solo il 42% di quanto immagazzinato è stato classificato, ma solo il 15% sia realmente pulito e critico per il business. Il restante 27% appartiene alla categoria dei cosiddetti "
Rot data", ovvero sia materiale ridondante, obsoleto o insignificante e andrebbe periodicamente eliminato.
Al 58% dei rimanenti
dark data, potrebbero appartenere anche informazioni importanti, ma certamente
la componente più rilevante è rappresentata da materiale
duplicato,
inutile, quando addirittura non conforme o illegale.L’
Italia, tuttavia, è fra i cinque paesi nei quali agli investimenti per la conservazione corrisponde anche un maggior valore di ciò che viene archiviato: “
Per cultura e tradizione, siamo da sempre attenti ai documenti – conferma
Massimiliano Ferrini, country manager di Veritas Italia –
già nell’epoca delle versioni cartacee. Ritroviamo ora lo stesso comportamento anche in campo digitale, anche se poi l’utilizzo non è sempre attento, se si pensa che spesso si salva su un dispositivo personale ciò che dall’azienda non dovrebbe mai uscire”.
Uno spreco che vale centinaia di miliardi
Su scala continentale lo studio di Veritas quantifica in 784 miliardi di euro lo spreco di risorse aziendali che potrebbe esserci entro il 2020 per la conservazione di dati Rot, a meno che, ovviamente, non cambi qualcosa nella strategia di
gestione delle informazioni. Ne deriva che solo il 12% della spesa per lo storage viene indirizzato sui dati effettivamente importanti per il business.
Il Databerg Report se la prende, in modo particolare, con dirigenti e impiegati delle aziende. Molto spesso, infatti, queste persone trattano i sistemi It corporate come se fossero le proprie infrastrutture personali, con i manager che, in aggiunta, si appoggiano in modo eccessivo sullo
storage cloud, esponendosi a rischi di violazioni della compliance e alla perdita di dati. In Italia, il 50% degli intervistati ha dichiarato che utilizzerà sistemi di storage su cloud entro il 2016, un valore superiore a quello della media europea.
Il nostro Paese, poi, spicca anche per il 34% medio di dipendenti aziendali che memorizza dati in modo indiscriminato sui
dispositivi di lavoro: “
Ancor più pericoloso però – nota Ferrini –
è che c’è un 93% che utilizza servizi di sync & share nell’ambito delle policy definite, ma il 56% le viola con programmi non autorizzati”.
La crescita di questo iceberg di dati oscuri si deve essenzialmente al peso eccessivo dedicato al trattamento di
grandi volumi, con strategie It poco concentrate sul valore di business. A questo si aggiungono la poca attenzione dei dipendenti verso le
policy aziendali e l’eccessivo ricorso, già sottolineato, allo storage gratuito: “
Quello che anche da noi stenta a essere compreso è che tutto ha un costo – riprende Ferrini -.
Se ancora oggi si pensa più ad acquistare capacità aggiuntiva al crescere dei dati che a una più accurata analisi, la disponibilità di spazio talvolta illimitato in Rete ha spinto a comportamenti spesso fuori controllo. L’approccio deve essere assai più qualitativo che quantitativo”.
Veritas consigli alle aziende di identificare il più possibile i dati che circolano in azienda, eliminare quelli inutili o dannosi, definire una strategia di
governance che parta dal coinvolgimento del management e migliorare la flessibilità aziendale utilizzando in modo accorto ambienti di storage su cloud: “
Da noi, questi processi dovrebbero essere auspicabilmente accompagnati da una legislazione sul tema dell’e-discovery, per garantire standard più elevati per la conservazione e la presentazione del dato”, conclude Ferrini.