Poche startup sopravvivono e comunque non contribuiscono al dinamismo del mercato. Ma anche perché è il mercato stesso che non le aiuta.
È già da qualche tempo che il modello delle
startup alla Silicon Valley
non appare più brillante come prima. E chi guarda al mercato tecnologico con un certo pragmatismo se lo aspettava: la Silicon Valley "alla Steve Jobs" è un fenomeno storico-culturale difficilmente ripetibile e già concluso da tempo, mentre negli anni anche recenti la definizione stessa di startup è stata adattata a seconda dei casi e
ha un po' perso la sua valenza. C'è chi ama definire anche Google come una startup, per dire.
Intendiamoci, nel modello teorico in sé delle startup non c'è niente di negativo. È naturale immaginare che giovani quasi-imprenditori siano
intrinsecamente più innovativi delle grandi imprese e che possano introdurre una forte carica di dinamismo nel mercato. E il dinamismo serve sempre:
porta evoluzione e concorrenza con, di conseguenza, più produttività e uno sviluppo del mercato del lavoro.
Sempre teoricamente, anche l'alta mortalità delle startup tecnologiche non rappresenta un problema. Da un lato è una sorta di
necessaria selezione naturale del mercato nei confronti delle idee imprenditoriali. Abbiamo ad esempio davvero bisogno dell'ennesima app per fare recensioni di locali? Probabilmente no. Poi la
mentalità "fail fast" associata alle startup è positiva: una prima esperienza imprenditoriale andata male permette di capire cosa serve per avere successo la seconda volta (o la terza, magari).
Il problema è che i dati concreti di mercato hanno cominciato a mostrare che
la pratica è diversa dalla teoria. I dati sono riferiti al mercato statunitense, ma nulla fa pensare che altrove le cose possano essere diverse. E soprattutto più favorevoli alle startup e ai giovani imprenditori.
Un primo campanello d'allarme importante è venuto qualche mese fa dal National Bureau of Economic Research (NBER), con
uno studio che ha sostanzialmente
demolito lo stereotipo del giovane nerd imprenditore tecnologico che crea la sua fortuna. Considerando solo le startup che hanno successo e che crescono più delle altre,
l'età media dei fondatori è decisamente più alta di quanto non si immagini. Se si considerano le startup che assumono almeno un dipendente questa età è di circa 42 anni e sale a 45 per le startup con la crescita più elevata (il top 0,1 percento).
Le correlazioni statistiche indicano, sempre secondo lo studio, che gli imprenditori "datati" - relativamente parlando - sono più di successo mentre
i fondatori più giovani sono correlati a basse performance. Il che va contro gli stereotipi ma non contro il buonsenso: chi ha meno esperienza ovviamente fa più errori e non ha una rete di contatti a cui attingere per le competenze e il supporto necessari.
Ora uno studio della
Brookings Institution, una
organizzazione non-profit che raccoglie diversi esperti ed esamina periodicamente vari aspetti dell'economia e della società USA, ha invece sottolineato che
il contributo delle startup al dinamismo del mercato americano sta sensibilmente calando. Banalmente perché sta calando il numero delle startup in sé.
In tutti i principali settori
il numero delle nuove startup è in decrescita da tempo, secondo Brookings, e non per fenomeni ciclici. Questo comporta effetti negativi perché, si spiega, "
la sostituzione di aziende a bassa produttività con giovani aziende ad alta produttività e la riallocazione dei lavoratori alle seconde sono entrambi meccanismi cruciali per elevare la produzione economica e gli standard di vita".
Arrivano meno startup sul mercato, quindi, e anche quelle che ce la fanno danno un contributo sempre minore in termini di nuova occupazione. le analisi Brookings indicano infatti che il contributo delle aziende più giovani (con 0-10 anni di vita) al mercato del lavoro
è quasi dimezzato dal 1987. Nella fascia 0-6 il declino dei dipendenti dipende sia dalla mortalità delle startup sia dal fatto che
impiegano sempre meno persone, mentre nella fascia delle startup più "solide" (6-10 anni di vita) questo secondo fattore è più rilevante.
Una passione solo a parole
Se le analisi NBER indicavano che le startup hanno il problema di tradurre in pratica con successo le loro idee, la visione di Brookings indica più nettamente che
il mercato non le favorisce davvero. Esaltate dal marketing e dai venture capital, le startup nei fatti sono poi bloccate da uno scenario in cui la concorrenza non è più agevolata come una volta e in cui i grandi incumbent appaiono favoriti.
Brookings mette in evidenza in particolare due fenomeni. Innanzitutto tutti i comparti di mercato hanno
un tasso di concentrazione sempre più elevato perché le autorithy di controllo sono più permissive e non agiscono fino a quando un comparto non si riduce mediamente a cinque grandi player. In secondo luogo le
agevolazioni fiscali alle imprese finiscono per favorire quelle grandi molto più di quelle piccole, con la conseguenza di svantaggiare ulteriormente queste ultime.
Aggiungiamo al mix un
calo evidente della propensione imprenditoriale delle persone con istruzione superiore e una minore disponibilità di capitali per chi inizia una sua attività, e la frittata è fatta.
Combinate insieme, le valutazioni di Brookings e del NBER
non possono certo mettere tranquilli gli startupper. Men che meno quelli di casa nostra: il mercato USA non sarà più quello di una volta ma resta molto più favorevole alle startup tecnologiche di quello europeo. Anche se da noi i numeri
si fanno interessanti, comunque da questa parte dell'Atlantico i venture capital sono molto meno propensi a rischiare e l'azione dei vari Governi a favore delle giovani aziende tecnologiche è quantomeno a macchia di leopardo.
D'altronde, è inevitabile che anche le politiche "nazionaliste" di sviluppo tecnologico a medio-lungo termine si scontrino con la volontà di
attirare nel breve periodo gli investimenti delle grandi aziende tecnologiche globali. Che però sono di fatto concorrenti delle startup locali. Un
bel dilemma.
Così appare più comprensibile perché molte startup europee di relativo successo
vengano da ambienti "controllati" come le Università e i poli tecnologici. Qui probabilmente non potrà mai nascere il prossimo Steve Jobs, ma almeno ci sono le competenze e il network che servono nella primissima fase di sviluppo delle giovani imprese. Sempre sperando che l'obiettivo non sia poi per forza farsi acquisire da qualche grande nome.