Leggi il Magazine

Se prendiamo per buone le previsioni degli analisti che descrivono miliardi di oggetti smart in rete, una economia sempre più digitale e la proposizione di quasi tutto in una logica as-a-Service, viene logico pensare che una buona fetta delle migliaia di aziende che offriranno i servizi e prodotti del futuro prossimo farebbero molto prima a delocalizzare l’IT da qualche parte piuttosto che tenersela in casa.

È il mantra della flessibilità, niente affatto nuovo ma che esce dalla pandemia molto rafforzato. Tanto per dare qualche cifra, secondo Synergy Research Group nel 2020 la spesa mondiale enterprise per i servizi cloud infrastrutturali ha sfiorato i 130 miliardi di dollari e quella per l’hardware e software da data center è restata sotto i 90.

È un segnale da cogliere. Ma attenzione a generalizzare. Le grandi imprese che si sono avvicinate al cloud - specialmente quelle che hanno puntato decisamente su di esso, e ben prima della pandemia - hanno raccontato che la “nuvola” piace ma va gestita con una certa accortezza.

Che l’elasticità c’è, eccome, ma se ne perdi il controllo si paga salata. Che entrare in certi mondi cloud è facile ma uscirne lo è molto meno. Che delegare al provider non è affidarsi ciecamente ad esso in tutto e per tutto.

In generale, che anche chi deve solo guidare una metaforica vettura tecnologica in cui tutto sembra semplificato, è bene sappia cosa succede sotto il cofano e come intervenire quando serve.

Leggi il Magazine