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Il telelavoro alla prova del Coronavirus: a che punto siamo? Parte 1 di 3

L’emergenza sanitaria in atto ha dato una forte spinta allo smart working, anche se non tutte le aziende sono pronte a queste modalità lavorative, come spiegano alcuni system integrator  

Trasformazione Digitale Mercato e Lavoro
L’emergenza sanitaria esplosa a seguito del Coronavirus ha spinto moltissime aziende ad adottare, tra le altre cose, modalità lavorative di tipo smart working. E in effetti l’espressione “smart working” è tra le più utilizzate in queste settimane, anche se per buona parte dei casi sarebbe più corretto parlare di “remote working”.  

È un dato di fatto che moltissime aziende, in particolare quelle di servizi, hanno abbracciato il lavoro da remoto per affrontare l’emergenza. Questa modalità operativa viene spesso etichettata come smart working, anche se in realtà il cosiddetto “lavoro intelligente” presuppone scelte volontarie e un quadro di riferimento più ampio.  

Sia come sia, il fenomeno del lavoro da remoto o “smart working” inteso in questo senso ha assunto dimensioni notevoli, come rivela in questi giorni di fine marzo 2020 una indagine condotta in Italia da Citrix in collaborazione con la società di ricerca OnePoll, che ha coinvolto un campione di 1.000 intervistati.

Il quadro che ne emerge parla di difficoltà iniziali, che lasciano però spazio a sviluppi per il futuro. Se infatti molte grandi aziende hanno già da tempo adottato forme di smart working, in genere per uno o più giorni alla settimana, altre si sono dovute riorganizzare in tempi rapidissimi per rendere possibile il lavoro da remoto. Non è quindi una sorpresa scoprire che praticamente 4 aziende su 5 (il 77,9% del campione) hanno affermato di non aver mai fatto smart working in precedenza, sottolineando di aver trovato nella tecnologia uno dei problemi principali.  

Per saperne di più, ImpresaCity ha deciso di interpellare alcuni dei system integrator italiani, scegliendoli tra quelli consultati per lo Speciale Modern Workplace del magazine di febbraio scorso, allo scopo di avere un resoconto di prima mano sullo stato delle imprese in relazione al remote working.

Ponendo due domande, ovvero “Dal vostro punto di vista, quanto le imprese italiane sono pronte alla nuova concezione del telelavoro?” e “Quali sono le principali lacune, tecniche e organizzative, che alcune aziende devono colmare?”, abbiamo potuto comporre un quadro articolato dello stato dell’arte dello smart working in tempi di emergenza sanitaria. Questo primo articolo introduce e inquadra il tema, mentre i due successivi, qui e qui, presentano le risposte alle domande date dai system integrator interpellati da Impresa City.

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Esperienza nuova

Un primo parere interessante è quello di Andrea Giuliani, Head of Design & Delivery di VEM sistemi, che conferma una sorta di “impreparazione” da parte di alcune aziende, sottolineando che “l’esperienza di queste settimane, in cui siamo stati sommersi da richieste di supporto dei nostri clienti per adottare soluzioni tecnologiche abilitanti, ci dice che molte delle imprese italiane non erano pronte a gestire il telelavoro su larga scala. Noi stiamo dando un contributo per indirizzare al meglio gli aspetti tecnologici, e abbiamo consentito a molte aziende di estendere il lavoro agile a gran parte delle loro persone. Adattare i processi, però, è un altro discorso e riguarda organizzazione e cultura aziendale”.  

Sulla stessa linea anche Stefano Pivetta, BU Manager CX & Collaboration Italy per NTT, per il quale “la risposta all’emergenza attuale consta di una soluzione di urgenza che ha il nome di remote working e sottolinea quanto ancora ci sia da fare per implementare quello che viene definito smart working, ovvero la reale collaborazione".

In questo scenario, sottolinea Pivetta, "molte aziende non sono assolutamente pronte perché se da un lato le tecnologie sono disponibili, l’implementazione di queste in uno stato di necessità introduce problematiche specifiche in termini di sicurezza, efficacia e adeguatezza di tale strumento, per il quale si rende necessaria un’analisi e una pianificazione adeguata che consideri i processi e una riorganizzazione aziendale supportati da dispositivi che insieme rendano il lavoro più funzionale”.
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Fabio Chiodini, Modern Workplace Lead Italia di Avanade, introduce l’ulteriore elemento della necessità di uno sforzo congiunto tra varie funzioni aziendali: “se parliamo di gap tecnologico, sicuramente le aziende che hanno già abbracciato il cloud si trovano avvantaggiate in questa fase e stanno utilizzando le soluzioni di collaborazione per garantire la business continuity. Le lacune più evidenti sono però quelle organizzative. Più in generale, il cambiamento nelle organizzazioni, legato in questo momento in particolare al remote working, non si limita all’introduzione di nuove tecnologie ma richiede di intervenire su processi e cultura".

Ne emerge, prosegue Chiodini, che "è richiesto uno sforzo congiunto tra varie funzioni aziendali: IT, HR e delle principali linee di business. Noi di Avanade in questo momento stiamo lavorando su entrambi i piani: accompagniamo i nostri clienti nell’implementazione e adozione delle tecnologie necessarie e li supportiamo nel ‘change management’ erogando formazione e affiancando l’intera organizzazione”.

L'articolo prosegue: qui la seconda parte
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