Il matrimonio fintech tra digitalizzazione e servizi finanziari sta procedendo più a rilento del previsto. Perché è difficile far innovare insieme aziende consolidate e startup tecnologiche.
Solo tre-quattro anni fa il mondo
fintech si presentava come prossimo al successo. Usare la digitalizzazione per far evolvere i servizi di un settore “rigido” come quello bancario-finanziario sembrava ottimale. L’idea giusta al momento giusto.
Semplificare il banking per cogliere la richiesta di servizi migliori espressa dai clienti di tutte le fasce d’età. Ma soprattutto dai più giovani. Abituati a trovare tutto con pochi tocchi sul display dello smartphone. Tecnologia e servizi finanziari: fintech. Serviva un termine nuovo per denotare un
cambio di passo del settore.
Facciamo avanti veloce al 2020. Sembra che la montagna fintech abbia partorito il proverbiale topolino. Gli strumenti digitali in mano ai consumatori
non sono molti più di prima. E i casi più citati, a livello europeo, sono quasi sempre gli stessi. Le banche tradizionali hanno migliorato il loro “ultimo miglio”, ossia i servizi digitali per ai consumatori. Ma lo stanno facendo
senza fretta. L’interesse dei grandi nomi dell’IT (Apple, Google, Amazon...) per i servizi finanziari c’è. Ma resta confinato ai sistemi di pagamento facilitato.
Chi pregustava una rivoluzione digitale del banking e del finance è stato deluso.
Ma a ragione? Dipende, alla fine, da cosa intendiamo per fintech.
Fintech senza hype
Innanzitutto, l’hype fintech del 2016-2017 era, appunto, hype. Era normale che lasciasse il campo a sviluppi più concreti ma meno appariscenti. Che ci sono indubbiamente stati, anche da noi. A fine 2019 il Politecnico di Milano contava
326 startup fintech/insurtech in Italia. Non poche. Il problema è che non hanno le spalle larghe. In media hanno raccolto 2,6 milioni di euro di finanziamenti ciascuna. Pochi per affermarsi solidamente sul mercato. Tanto che le eccezioni sono solo due, ben note.
Prima Assicurazioni in campo insurtech e
MoneyFarm in ambito investimenti. La prima ha raccolto 100 milioni di financing, la seconda 70.
Sono, come la citatissima
non-banca tedesca
N26, esempi della interpretazione più classica del fintech. Offrire servizi più o meno innovativi in maniera snella e amichevole per i potenziali clienti. Di diverso e di già diffuso c'è il
social lending: i prestiti fra privati o fra privati e imprese. Per il 2018 ABI stimava che i prestiti P2P ammontassero a 763 milioni di euro, con un trend di raddoppio ogni anno. E alcune piattaforme, come
Smartika o
Prestiamoci, note anche al grande pubblico.
Ma le realtà fintech o insurtech “visibili”
sono solo la punta dell’iceberg. Sono molte di più quelle che sviluppano
tecnologie utili a creare servizi innovativi, ma non li offrono loro direttamente al pubblico. Data analytics,
machine learning, chatbot,
roboadvisor, blockchain... la gamma delle tecnologie è ampia. Ma queste realtà non possono operare da sole.
Sono gli ideali partner di realtà già consolidate che vogliono innovarsi. E qui nasce il vero problema: la collaborazione.
Il rapporto difficile del fintech
Tutti parlano di open innovation e sinergie tra incumbent e startup. Ma la realtà dei fatti è che la maggior parte dei progetti collaborativi
non va oltre lo stadio prototipale. E lascia i due partner insoddisfatti. Per colpa di chi? Secondo una
analisi Capgemini-EFMA, di entrambe le parti.
Ognuno ha i suoi difetti.
Le banche tradizionali approcciano l’innovazione con l’obiettivo di possederla, spiega il report. Hanno strutture e processi molto rigidi (ma anche per questioni di compliance). Raramente accettano un approccio fail-fast, Hanno sistemi IT poco aperti. Le startup
peccano di gioventù. A volte il loro prodotto non è abbastanza robusto e scalabile. Il management non ha sufficiente solidità. Lo sviluppo di soluzioni non è sempre allineato con le vere esigenze del mercato.
Morale: i progetti che funzionano sono quelli che non mettono insieme genericamente banche e startup. Ma
banche già di loro pronte per l’innovazione e realtà scale-up. Ossia innovative sì, ma con una base economica e una struttura già abbastanza solida da essere partner affidabili.
Tirando le somme, il fintech più che aver frenato mostra sensibili
dolori di crescita. Crescita che comunque avverrà perché la richiede la componente più importante: la
clientela. Il successo dei servizi innovativi è innegabile - sempre secondo il Politecnico, nel 2019
12,7 milioni di italiani hanno usato almeno un servizio fintech/insurtech, e con soddisfazione - ed è questo il vero motore dell’evoluzione.