L'integrazione software è cambiata: dagli ESB all'iPaaS è diventata uno strumento per aumentare il grado di digitalizzazione delle imprese. E riprendere il controllo dei datii.
Nel modello tradizionale di sviluppo software l'
integrazione applicativa è stata storicamente un ambito piuttosto di nicchia. E anche un bel problema. Le applicazioni monolitiche hanno sempre cercato di
contenere il bisogno di dialogare con altre applicazioni. Perché all'aumentare delle applicazioni "parlanti", l'integrazione diventava un complesso di connettori, moduli-ponte ed interfacce rapidamente poco gestibile.
Oggi invece l'integrazione applicativa è un must inevitabile. Le applicazioni "moderne" in sé
sono fatte di elementi che dialogano fra loro. Come i microservizi nella logica cloud-nativa. Le altre meno moderne devono adeguarsi per forza, tranne rare eccezioni. Anche per questo Gartner stima che il mercato dell'integrazione applicativa cresca del 60-70% l'anno. Solo che non si chiama più tanto integrazione applicativa ma
iPaaS, "integration Platform as-a-Service". Perché l'integrazione ora ovviamente si costruisce attraverso
piattaforme cloud in logica di servizio.
"
Le aziende hanno stratificazioni di applicazioni che ora devono dialogare per supportare nuovi processi", sottolinea
Fabio Invernizzi, Sales Director, EMEA South di Boomi, evidenziando che il problema di fondo - il dialogo applicativo - rimane quello.
Cambiano semmai le condizioni al contorno e le soluzioni. I classici Enterprise Service Bus "
sono buoni strumenti in generale ma non sono adatti al cloud, perché sono nati quando questo non esisteva". Anche se in molti casi
le soluzioni iPaaS convivono con gli ESB, perché molte imprese hanno investito parecchio su questo tipo di soluzioni.
La complessità delle architetture è d'altronde sempre stato il punto debole degli ESB. E il nuovo mondo delle applicazioni cloud-native
diventa per loro davvero troppo complesso. Il dialogo da e verso - e dentro - il cloud si fa troppo articolato. Parallelamente, l'integrazione non avviene più solo per le applicazioni in sé. Riguarda anche
dati, API, documenti, interfacce verso gli utenti.
Integrazione e velocità applicativa
Proprio la focalizzazione delle imprese
sulle esigenze degli utenti finali è una spinta a ripensare la propria integrazione applicativa, sottolinea Fabio Invernizzi. Anche se la customer experience sembra un tema più da marketing che da reparto IT. Ma quello che "vede" il cliente finale è sempre il risultato di
molte interazioni tra quelle applicazioni stratificate a cui accennavamo prima. E
se le interazioni non sono fluide, la customer experience è negativa. Un rischio che oggi nessuno vuole correre.
Boomi porta come esperienza significativa
il caso di Sky Media, che ha usato i suoi prodotti per integrare un centinaio di sorgenti dati per migliorare le attività di assistenza clienti. Che ora non si svolgono più prevalentemente via call center ma tramite app mobile. "
Un progetto che non è nato dall'IT ma dalla parte di customer service", commenta Invernizzi. Ma che dà il senso della moderna integrazione applicativa.
Il numero delle applicazioni e delle sorgenti dati in azienda cresce di continuo, cresce proporzionalmente il rischio di perderne traccia. "
Molti clienti hanno perso visibilità su cosa hanno e anche su come funzionano i loro componenti", evidenzia Invernizzi. Per questo Boomi nella sua piattaforma - la AtomSphere Platform - ha puntato molto su tool semplici e visuali, che
mostrino concretamente il flusso delle integrazioni. "
Anche grazie - spiega il manager di Boomi -
a funzioni di intelligenza artificiale che fanno un mapping delle connessioni fra applicazioni e dei flussi di dati".
L'obiettivo generale è
dare una visione corretta e funzionale del dialogo fra servizi e applicazioni, per poi poterlo ampliare secondo le opportunità e le necessità del momento. Per questo è ovviamente fondamentale la parte di integrazione delle sorgenti dati, su cui Boomi ha lavorato anche attraverso acquisizioni. "
Dovunque c'è un dato in forma digitale, possiamo andarlo a prendere", sintetizza Invernizzi per sottolineare che la AtomSphere Platform ha i
moduli necessari per tutto il data management. La parte di data discovery per identificare le sorgenti dati, quella di data catalog per classificare le informazioni, quella di data preparation per le opeazioni ETL.
Un passo in più per l'integrazione
Il salto dalle soluzioni stile ESB al mondo iPaaS è notevole. Ma l'integrazione continua ad evolvere, spiega Fabio Invernizzi, e
nel prossimo futuro diventerà sempre più automazione ed orchestrazione. Questo perché su una base concreta ed affidabile di funzioni di integrazione si possono costruire processi e workflow automatizzati. La logica quindi "esce" dall'applicazione e
fa parte anche della piattaforma. Il che permette di creare nuovi flussi di lavoro - che di fatto sono nuove applicazioni - con una rapidità e una semplicità prima impossibili.
Oggi l'integrazione, o meglio una piattaforma iPaaS, deve quindi comprendere anche componenti di sviluppo. Nel caso di Boomi e della AtomSphere Platform si tratta della parte di
Flow. Che in piena logica di sviluppo moderno segue un approccio
low-code e no-code. Il che "
permette di ridurre il time-to-market applicativo", spiega Invernizzi, senza limitare il raggio d'azione di chi sviluppa.
La parte low-code va infatti bene per i casi in cui c'è comunque una parte importante di logica applicativa. E può essere
integrata con framework specifici per le singole applicazioni. La parte no-code è di solito indicata per i workflow che non hanno una vera e propria interfaccia visuale. O per i quali la personalizzazione grafica è poco importante.