IBM ha annunciato lo spinoff della parte outsourcing e hosting. Una scelta che segna la supremazia della strategia hybrid cloud, ma per molti versi anche la fine di un'era della società.
Una
IBM che va avanti sulla strada del cloud ibrido e una "newco" che
se ne distacca per gestire in autonomia il business genericamente collegato all'outsourcing tradizionale. È in estrema sintesi la trasformazione che il CEO di IBM, Arvind Krishna, ha
annunciato e che dovrebbe completarsi entro fine 2021. Una separazione che si può descrivere anche usando le metafore "cromatiche" che sono nate dopo l'acquisizione di Red Hat. Big Purple, la parte "nuova" di IBM nata dalla fusione con Red Hat,
lascia indietro la classica Big Blue. Il futuro del (multi)cloud ibrido non può farsi frenare dalle attività tradizionali che crescono poco. O non crescono affatto.
Per i fan della digitalizzazione a tutti i costi la scissione di IBM è una scelta logica, quasi doverosa. E appare come una scelta drastica e di rottura. Ma è davvero così?
Ovviamente no. Perché non si decide in pochi mesi un'operazione che coinvolge migliaia di persone, migliaia di clienti in tutto il mondo e un giro d'affari stimato (per la newco) in una ventina di miliardi di dollari l'anno. La scissione sarà quasi certamente
la decisione strategica simbolo della attuale era-Krishna. Ma è da decenni che IBM cerca di mantenere un non facile equilibrio tra prodotti e servizi. Tra sviluppare il nuovo e gestire il (relativamente) vecchio.
Partiamo però dallo scenario che IBM delinea per la scissione. La "newco" che debutterà a fine 2021 è in sostanza la business unit Managed Infrastructure Services che fa parte della divisione Global Technology Services. Una entità che IBM stessa definisce come un "
managed infrastructure services provider", che si focalizzerà sulla gestione e sulla modernizzazione delle infrastrutture IT dei clienti.
Dall'altro lato della scissione resta Big Purple,
più molti pezzi pregiati di Big Blue. Intelligentemente, infatti, IBM non sta puntando solo sulla combinazione delle sue componenti cloud con
quelle di Red Hat. Krishna e gli altri manager sanno bene che IBM difficilmente sopporterebbe - finanziariamente - il passaggio immediato dal business tradizionale al modello cloud puro. Abbandonare i ricavi del business tradizionale per quelli ricorrenti del cloud
è una strategia bella da descrivere, ma ci vuole troppo tempo perché i secondi eguaglino i primi. Un tempo che IBM non ha e che comunque il mercato non le concederebbe.
Inoltre, una IBM che puntasse solo sullo stack tecnologico di Red Hat, ampliato dalle altre componenti software e cloud di IBM, si limiterebbe da sola.
I clienti non vogliono solo questo. Nella loro transizione al cloud ibrido servono anche sistemi e competenze. IBM ne ha di convincenti, peccato abbandonarli. E abbandonare il loro business. Non è un caso che, parlando con gli analisti, Krishna abbia spiegato che
la spesa dei clienti "evoluti" di IBM è articolata. Per ogni dollaro speso in prodotti infrastrutturali Red Hat, ne spendono 1-2 in infrastruttura, 3-5 in altre componenti software, 6-8 in consulenza e servizi. La nuova IBM vuole una buona fetta di tutti questi 15 dollari potenziali. Non solo il dollaro di Red Hat e magari qualcosina in più.
Verso il cloud, con le spalle coperte
Così in IBM rimangono molte componenti da giocare sul tavolo del cloud ibrido e della digitalizzazione. Tutta la parte architetturale
derivante da Red Hat, considerata la base tecnologica per le implementazioni di cloud ibrido. Il
portafoglio software IBM per la parte applicativa e middleware, comprese in particolare le componenti AI, automazione, sicurezza. La parte
servizi, ma solo quella più focalizzata sulla trasformazione più evoluta, in senso hybrid cloud, delle architetture dei clienti. Il
public cloud di IBM. E anche la parte
Systems: i
mainframe z e i sistemi Power.
Armata di tutto questo, la nuova IBM vuole andare a conquistare quello che da tempo indica come una "opportunità hybrid cloud da mille miliardi di dollari". Ma, ha spiegato il CEO Krishna,
diventa più difficile farlo se bisogna soddisfare le richieste di tutti i tipi di clienti, che siano più o meno (o affatto) interessati all'idea del multicloud ibrido. "
Le esigenze d'acquisto in applicazioni e infrastruttura dei clienti stanno divergendo... Ora è il momento giusto per creare due aziende focalizzate su ciò che fanno meglio", ha spiegato il CEO.
Jim Whitehurst, ex CEO di Red Hat, e Ginni RomettyÈ abbastanza chiaro quello che - nella visione di IBM - la "nuova" Big Purple sa fare meglio. E comunque quello che vuole fare da grande. La scissione è pensata in maniera sufficientemente
pragmatica da metterla in grado di proseguire sulla sua strada senza scossoni a breve. Diventare leader in un mondo tutto hybrid cloud è un obiettivo futuribile che, nel frattempo,
può essere sostenuto con il business assai concreto dei sistemi Z e Power e dei servizi e dei sofwtare che si portano dietro. Senza di essi, la nuova IBM non potrebbe presentarsi come una realtà da 59 miliardi di dollari l'anno. Questa è la base su cui costruire il nuovo.
Una newco "too big to fail"?
E la futura "newco"? IBM ha badato bene a non farla percepire come una "bad company" in cui ha messo quello che non rende.
Anche perché, in effetti, rende. E parecchio. Con una previsione di fatturato di 19 miliardi di dollari l'anno (stimati a partire dal business degli ultimi 12 mesi), stiamo pur sempre parlando della nascita del più grande provider di managed service infrastrutturali. In senso tradizionale, almeno.
Attenzione, però. La newco magari sarà "too big to fail" ma non, parafrasando, "too big to decline". Non è certo una bad company ma se fosse stato un boccone davvero appetibile, IBM
sarebbe riuscita a venderla portando in cassa una notevole quantità di denaro che le avrebbe certamente fatto comodo. In un mercato in cui oggi le divisioni servizi si
cedono e non si comprano, però, l'operazione - anche per le dimensioni della newco - era di fatto impossibile.
Così lo scenario che si avrà a partire dalla scissione sarà meno roseo dei comunicati stampa.
La newco gestirà un business che, salvo sorprese, è in declino. Il suo mercato potenziale, che IBM stima in 500 miliardi di dollari, se lo dovrà giocare da sola con molte altre realtà. Anche per questo sarà importante sfruttare le - già annunciate e sottolineate - sinergie con IBM come fornitore tecnologico. La newco sarà almeno inizialmente
il principale cliente della nuova IBM: già il prevedibile business legato alla parte sistemi per questo basterebbe.
Il principale problema della newco sarà muoversi in fretta, per
consolidarsi bene una volta uscita dalle braccia - magari limitanti, ma protettive - di IBM. Parte con in dote i servizi che in IBM crescevano di meno, o per niente. Ma questo non vuol dire che non abbiano mercato.
Ci sono migliaia di aziende che devono gestire sistemi, applicazioni e piattaforme che
non vogliono trasformare del tutto in logica cloud. IBM parla di "managing and modernizing" come attività principali della newco, che parte con 4.600 clienti "technology-intensive, highly regulated". Citati non a caso: sono i grandi clienti che spendono molto, che
le tecnologie le usano massivamente ma che non possono - e spesso nemmeno vogliono - trasformare i loro sistemi.
Come che sia, va visto davvero come
la fine di un'era (informatica) il fatto che alla nuova IBM questi grandi clienti interessino poco. Sono chiari i motivi per cui questo accade e la logica delineata da Arvind Krishna è per moltissimi versi perfettamente condivisibile. È impossibile però non considerare che
IBM è stata per decenni, di fatto, una società di servizi focalizzata su questo tipo di utenti. È stata anzi la creazione della parte servizi a salvare IBM negli anni Novanta. E da lì sono poi venuti i suoi principali CEO, da Sam Palmisano a Ginni Rometty. Ma quella era Big Blue. Questa IBM cerca di essere qualcosa di diverso.