Il PNRR non è una lista di cose da fare per crescere meglio come istema-Paese: ci indica le trasformazioni che non possiamo più permetterci di non fare
La pubblicazione del
Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza - il
PNRR - ha prevedibilmente già suscitato molte aspettative. Come è logico che sia, perché è da tempo che l’Italia non aveva a disposizione fondi così cospicui da dedicare alla trasformazione del Paese.
Oltre 235 miliardi di euro, tra sovvenzioni e prestiti, che dovrebbero, nelle intenzioni, essere impiegati per colmare i gap di cui in Italia ci
lamentiamo da anni: nella digitalizzazione delle imprese e
della PA, nella mancanza storica di un approccio sostanziale alle tematiche ambientali, nell’accesso non omogeneo alle possibilità di sviluppo per questioni di età, genere, territorio. E fin qui, tutto bene. Se strategicamente ben spesi, i fondi previsti dal PNRR
possono effettivamente cambiare il volto della nazione.
A guardare le prime reazioni al Piano, però, un elemento di attenzione va decisamente posto. A differenza di altre iniziative precedenti - anche molto positive, come Industria/Impresa 4.0 - qui
non stiamo parlando di sovvenzioni a pioggia da applicare ad una generica lista della spesa tecnologica. Certo, il Piano comprende indicazioni di spesa e le dettaglia anche bene, almeno per alcuni settori. Ma, ad esempio, sapere che sono allocati 24 miliardi di euro per la digitalizzazione del sistema produttivo
aiuta a muoversi solo sino ad un certo punto. Sempre in ambito aziendale, il
Piano Transizione 4.0 non va visto come un “superecobonus 110% digitalizzazione” con cui rifare la facciata tecnologica delle aziende.
Il PNRR ci indica molto di più e meglio: le trasformazioni che il Paese
non può più permettersi di non fare. Entro certi limiti e fatte le debite differenze, qualcosa del genere era già successo per i temi legati alla privacy e alla protezione dei dati. Il mitico "codice Privacy" del 2003 indicava un elenco di cose da fare, e
ha cambiato poco nella percezione che le aziende avevano della tutela delle informazioni. Il
GDPR, anni dopo, non dava indicazioni tecniche precise ma linee di principio. Ed ha avuto, complice anche una mentalità digitale certamente più evoluta, un impatto
sostanziale.
Accadrà anche per il PNRR. Per i cinici, le intenzioni del Piano sono un film già visto. Ma il finale stavolta non può essere il solito, perché la lezione del 2020 -
l’importanza chiave della digitalizzazione - è stata chiara a livello globale. Le imprese e le PA virtuose di ogni nazione ora cercheranno di accelerare nello sviluppo tecnologico, per cui fare il minimo indispensabile
può essere bastato per sopravvivere ai lockdown ma non basterà nel prossimo futuro. Da parte di tutti servono strategie, idee, voglia di fare, concretezza. Idealmente, qui, il senso del PNRR è anche
eliminare pericolosi alibi: i gap strutturali certamente ci sono, eliminiamoli per fare in modo che ognuno possa giocare la propria partita, in un campo da gioco che post-pandemia è sempre più digitale e globale.
In quest’ottica molto dipenderà dalle imprese e da chi fornisce loro le tecnologie di cui hanno bisogno: a tutti si chiede
la stessa visione a lungo termine - e ottimistica, vien da dire - che ha il PNRR. E può essere difficile assimilare che non si sta lavorando per chiudere meglio un trimestre o un anno fiscale, ma per porre semi che magari daranno frutti tra qualche anno.
Le imprese d’altra parte devono chiedere alle loro controparti (politica, associazioni, lobby... quello che si vuole) lo stesso sforzo. L’evoluzione possibile del sistema-Paese italiano è fatta certamente di investimenti ma anche di riforme. Per queste ultime
non è questione di fondi ma di voler davvero cambiare e di vincere le inevitabili resistenze al cambiamento. Che sono fortissime in un Paese come il nostro, dove in troppi ambiti tutto si gioca sulle rendite di posizione. Anche in questo caso il film sembra già visto, ma il finale deve cambiare. Il rischio è quello di chiudere il cinema.
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