L'innovazione oggi porta i risultati migliori se è aperta: fatta a più mani, unendo capacità e istanze diverse. Un modello che potrebbe adattarsi molto bene alle aziende italiane.
Una maratona in solitario oppure una staffetta? Il "move fast, break things" della mitologia della Silicon Valley o uno sviluppo inclusivo? Per l'
innovazione tecnologica, interrogativi come questi si sono moltiplicati negli anni. Dando il senso di una visione dell'innovazione diversa rispetto a quella più scontata, calata dall’alto. Oggi
l'innovazione si trasforma in una open innovation in cui non esiste solo la capacità creativa della
grande impresa ma un lavoro quasi di filiera.
Nessuno sa risolvere da solo le esigenze complesse che ci troviamo davanti. Serve fare ricorso a risorse e realtà esterne, che portino idee, competenze, soluzioni "altre".
Non sono concetti nuovi e chi lavora nell'IT li ha già visti in azione. Molti vendor
parlano di open innovation. Il dialogo tra imprese classiche e
startup tecnologiche si è fatto intenso proprio in una logica di "contaminazione" dell'innovazione. Che le seconde fanno per natura e le prime, spesso, con qualche difficoltà. In Italia buona parte delle grandi aziende, e una fetta di quelle più piccole,
indica che sta portando avanti iniziative di open innovation. Anche le imprese che, per tradizione e storia, erano ben convinte di avere già al proprio interno tutte le competenze necessarie a fare innovazione.
Proprio l'open innovation
può essere la via italiana all'innovazione tecnologica? O perlomeno funzionare meglio di altri approcci? Per molti versi sì. Le aziende italiane hanno portato avanti per decenni il modello dei distretti industriali, basato su
una sinergia territoriale che può adesso essere spostata sul piano dell'innovazione. Molte aziende italiane - specie le PMI - non possono trainare da sole l'innovazione. Ma unendosi fra loro e investendo in segmenti di innovazione
specifici possono essere un fattore di sviluppo. In parte, il
PNRR segue questa logica.
Non bastano però le dichiarazioni d'intenti e i fondi del Piano Nazionale. L'innovazione "aperta"
è anche una questione di organizzazione e cultura d'impresa, e qui le cose sono molto meno scontate di quanto sembri. Il distretto era basato su una concretezza territoriale, l’open innovation no.
È per definizione diffusa. Condividere informazioni, lavorare insieme, seguire un approccio a medio-lungo termine, fare squadra tra "dentro" e "fuori"... in Italia non sono concetti ovvi.
Ecco perché molti osservatori indicano che
per le imprese italiane il punto chiave sarà la gestione dell'open innovation, più che l'innovazione in sé. Non basta aprirsi verso l'esterno, serve anche modificare processi e approcci, per portare avanti progetti innovativi diffusi. E assorbire modelli di leadership diversi dal solito, in cui
essere leader non è “decidere” ma abilitare gli altri a farlo, per il futuro dell'impresa. Perché da qui in avanti le imprese in crisi saranno sì quelle che non innovano, ma anche quelle che in generale non sapranno adattarsi.
Obiettivo innovability
Oggi non c'è innovazione senza attenzione alla sostenibilità. Si parla infatti di "
innovability": la sostenibilità
guida l'innovazione e la fonde con le esigenze sociali, oltre quelle di mercato. Perché sostenibilità è certo
sostenibilità ambientale, ma anche sostenibilità in senso lato, in cui lo sviluppo si coniuga con l'attenzione anche alle istanze sociali.
L'innovazione tradizionale non è riuscita a farlo. Il modello classico - cosiddetto a tripla elica, in cui l'innovazione nasce dalla
collaborazione tra ricerca, pubblico e privato - non ha funzionato, da questo punto di vista. Scarsa comunicazione, poca trasparenza, il vedere i cittadini solo come consumatori (per il privato) e non vederli affatto come "clienti" (per il pubblico)... tanti fattori hanno fatto sì che l'innovazione tecnologica r
aramente fosse anche innovazione sociale.
Per questo la tripla elica si è fatta quadrupla: nei processi di innovazione
mette in gioco anche la società civile. Un modello ampliato che è intrinsecamente di open innovation, in cui i quattro attori devono sviluppare relazioni forti e creare processi partecipativi. Anche qui il punto critico è culturale ed organizzativo.
Innovability significa che un progetto "innovativo" non deve limitarsi a coinvolgere i cittadini chiedendo loro una conferma di quello che si è già deciso altrove.
Il coinvolgimento deve essere concreto, la società civile deve partecipare ai processi decisionali - anche se questo allunga inevitabilmente i tempi - e avere motivi chiari per farlo. Deve persino essere
più responsabilizzata. Ed è un bene, in questo senso, che sempre più progetti innovativi prevedano una
cogestione pubblico-privato dei servizi che ne sono l'obiettivo. Certo non è detto che, anche con questi approcci, tutti i progetti di innovability riescano davvero. Ma
il contesto "fluido" del post-pandemia pare quello più giusto per applicarli.