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Hybrid working: non è solo una questione di tecnologie

La componente formativa è fondamentale nella transizione verso l’hybrid working. Vediamo perché.

L'opinione

L’hybrid working è qui e dobbiamo imparare a conviverci. Ma, attenzione, il monito non vale solo per il management aziendale ma anche per i dipendenti. Saltiamo a piè pari tutta la dialettica che riguarda le cause della diffusione del fenomeno dell’hybrid working. Ne abbiamo preso atto, il Covid ha soltanto accelerato un trend che aveva già lanciato timidi segnali, spesso non raccolti dalle aziende.

Oggi la situazione è confermata da ricerche e fatti. Da una recente analisi di McKinsey traspare che la percentuale di dipendenti, di un campione di circa 5mila, che preferisce forme di lavoro ibrido è passata dal 40% prepandemia al 50% degli ultimi mesi. Non è un boom, a testimonianza del fatto che il trend era già in atto, ma è un’indicazione precisa: un dipendente su due vuole, e spesso esige, una forma contrattuale di hybrid working.

Una modalità operativa ibrida che significa, essenzialmente, lavorare in maniera indipendente dal luogo fisico, combinando la presenza in sede con quella da remoto, home working, south working e “qualsiasicosa” working purché non all’interno del perimetro aziendale. La letteratura sulle nuove modalità di lavoro, però, tende a enfatizzare i desiderata, spesso trasformati in richieste inderogabili al limite del ricatto, dei dipendenti, e le esigenze di un adeguamento tecnologico (imprescindibile) per le aziende. Mentre poco ci si sofferma sul profilo dell’hybrid worker ideale.

Dalla lotta di classe all’obiettivo comune

Per questo vale la pena analizzare l’approfondimento di McKinsey, che si sofferma proprio sulle caratteristiche che un’azienda deve aspettarsi da un hybrid worker, o sulle quali deve necessariamente lavorare per portare i propri dipendenti al livello di competenze richiesto dal nuovo modo di lavorare.

Insomma, la transizione da una modalità di lavoro in house in cui spesso la presenza è stata troppo sopravvalutata rispetto alla sostanza, leggi produttività, deve essere progettata in egual modo dall’azienda e dal dipendente. Perché, se un’azienda rimane in ostaggio delle “pretese dal basso” senza reagire ne consegue una deriva inevitabile che non fa evolvere il mercato.

Fatti salvi i diritti acquisiti di un lavoratore e le innumerevoli problematiche legate agli stipendi e alla tutela del lavoro, una lotta a suon di “great resignation”, “skill shortage” o “work life balance” – tutti termini volutamente riportati in inglese a prova della loro origine – non fa che indebolire un’economia già totalmente incapace di assorbire i fenomeni non previsti come le pandemie e le guerre. E determina una disparità dannosa tra un’azienda che dimostra di adottarlo, diventando più potenzialmente attrattiva per le nuove generazioni di lavoratori, rispetto a una che, spesso per poca visione strategica, difende un modello di lavoro oggi insostenibile.

Forse è meglio, dunque, fare un passo indietro tutti, lasciando da parte gestioni aziendali ottuse e nuove ideologie libertarie, prendendo atto della situazione e superando il momento con uno sforzo comune in cui tutti, management e dipendenti, devono avere una parte di responsabilità.

Seguendo questa prospettiva, dunque, soffermiamoci sulle caratteristiche che deve avere un dipendente che aspira all’hybrid working. McKinsey affronta la questione anche da un altro, interessante, punto di vista ponendo l’attenzione sulle conseguenze dell’introduzione dell’automazione, dell’intelligenza artificiale e della robotica. Segnalando che, in fondo, gli skill richiesti agli operatori di oggi, perché domani è già oggi, tornano utili anche a chi si aspetta che l’azienda gli “conceda” l’hybrid working.

Le competenze dell’hybrid worker

Sono tre le competenze necessarie all’hybrid worker individuate da McKinsey: cognitive, digitali e di auto-leadership, vediamole in dettaglio.


Abilità cognitive. Essere in grado di pensare in modo critico, strutturare i pensieri e comunicare in modo efficiente adattandosi alle circostanze, e agli interlocutori (uomini o macchine che siano) sono la chiave per ampliare le proprie abilità cognitive. La distanza fisica, il non vedersi, per esempio, richiede una forma mentis nuova che, paradossalmente, sviluppi maggiori capacità comunicative e di collaborazione. Si richiede uno sforzo importante, insomma, soprattutto a chi pensava di tutelare la propria misantropia con l’hybrid working.

Competenze digitali. Il digitale e la tecnologia sono i pilastri del nuovo modo di produrre, da qui non se ne esce. Comunicare con i propri interlocutori interni ed esterni, collaborare a un progetto, anche solo condividere un documento da remoto in maniera sicura, sono solo alcune attività che richiedono buone competenze digitali a tutti, indistintamente dalla mansione. Chi, nella PA per esempio, pretende l’hybrid working è certo di averle? Chi ha giocato con Tik Tok fino a ieri è certo di sapersela cavare con una piattaforma (desktop) per il CRM?

Auto-leadership. Lavorare per obiettivi e per task, perché è questo ciò che si fa nella nuova modalità, magari da soli e isolati, richiede il doppio della responsabilità. Chi ha lavorato per anni sotto il controllo di un superiore sarà in grado di raggiungere ugualmente gli obiettivi ora che si trova a casa, in un bar o sulla spiaggia senza nessuno che con costanza si presenti fisicamente a vagliare lo stato dei lavori?

Da sottolineare che spesso, le stesse mancanze si osservano anche e soprattutto su chi sta “dall’altra parte della barricata”, ovvero i manager. Dunque, anche il management aziendale dovrebbe chiedersi se è realmente pronto per l’hybrid working.

A questo punto si presentano due scenari. Ci sono i neoassunti che devono dimostrare di soddisfare i requisiti esposti, e una struttura HR, o un management, all’altezza di poterli valutare. Ma ci sono anche i dipendenti già presenti in azienda che hanno bisogno di un forte upgrade di competenze, spesso inquadrabili nei cosiddetti soft skills.

Affiancare all’innovazione un necessario percorso formativo

È, evidentemente, l’azienda che si deve fare carico di tutto ciò, perché ne va del proprio futuro. Diventa, così, fondamentale prevedere un percorso formativo specifico per facilitare l’hybrid working, da accostare ai necessari progetti di adeguamento tecnologico. Non basta, insomma, adeguare i contratti di lavoro, acquisire tecnologia senza una direzione precisa o costruire una narrazione basata su determinati benefit solo per conquistare i nuovi talenti. Occorre, in buona sostanza, creare una cultura dell’hybrid working.

I pilastri del necessario percorso di formazione finalizzato a diffondere una corretta cultura dell’hybrid working devono riguardare l’utilizzo della tecnologia e l’adeguamento a processi ben definiti e puntualmente monitorati. E non si può non considerare la sicurezza come altro elemento su cui fare formazione, né la comunicazione e lo sviluppo del team building. Come detto, comunicare da lontano è doppiamente difficile. Infine, lavorare sulla leadership. Da un lato l’auto-leadership di cui si è parlato in precedenza, che deve portare a una precisa assunzione di responsabilità, ma anche la leadership dei manager e dei responsabili di gruppi di lavoro. Anche in questo caso tutto è più complicato. Se esprimere la propria leadership è, in fondo, una forma di comunicazione finalizzata a un obiettivo che deve essere comune a tutti i gradi aziendali, manifestarla da remoto è, di fatto, difficile. Anche e soprattutto perché troppo spesso è proprio il management aziendale che non è ancora pronto a lavorare per obiettivi.

È un percorso, questo, che le aziende possono sviluppare da sole? La risposta è no. Non tanto per mancanza di competenze e risorse interne che generalmente dovrebbero afferire al dipartimento HR, ma perché, per impostare un progetto di questo tipo è necessaria una visione di insieme che non può non giungere da un partner esterno. D’altronde, mai come oggi le attività dei partner specializzati in consulenza aziendale sono state così sulla cresta dell’onda.

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