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Littler: i numeri del lavoro ibrido in Europa

Le aziende europee faticano a digerire davvero il lavoro ibrido, ma la flessibilità è indispensabile per attrarre e mantenere talenti

Mercato e Lavoro

Lo studio internazionale di diritto del lavoro Littler ha pubblicato una analisi, condotta su un campione di 700 direttori HR e in-house lawyer europei, che cerca di delineare quanto il fenomeno del lavoro ibrido stia cambiando le priorità organizzative delle aziende europee. L'hybrid working, sottolinea lo studio, sta effettivamente portando una profonda trasformazione del posto di lavoro. Il che cambia la visione delle imprese su diverse tematiche.

Il primo punto critico è ovviamente quanto sia stato "digerito" il lavoro ibrido nella gestione delle imprese. E fino a che punto oggi si possa richiedere il lavoro in presenza. L'esigenza più marcata è raggiungere il giusto equilibrio tra il desiderio di aumentare il lavoro in presenza e la garanzia di flessibilità necessaria per attrarre e trattenere i talenti.

Il 30% del campione dello studio ha dichiarato di avere effettuato un completo ritorno alla presenza, mentre il 27% ha optato per una forma di orario ibrida, con più giorni di lavoro in presenza e meno da remoto. Solo l'11% vede i propri dipendenti seguire un orario ibrido con più giorni di lavoro da remoto rispetto a quelli in presenza, mentre il 5% ha dichiarato che i propri dipendenti lavorano completamente da remoto. L'Italia spicca come il Paese con la quota maggiore (52%) di dipendenti tornati del tutto in presenza.

Il trend va evidentemente verso una maggiore richiesta del lavoro in presenza – il 73% dei datori di lavoro sta valutando la possibilità di ridurre il lavoro a distanza – ma questo atteggiamento si scontra con una resistenza crescente da parte dei dipendenti. Non si tratta necessariamente di un contrasto pericoloso: una quota importante (il 40%) del campione indica che nel proprio caso le politiche adottate dai datori di lavoro e le esigenze dei dipendenti sono allineate. Ma non in Italia, dove la percentuale di "ottimisti" scende al 29%.

I motivi principali che spingono i datori di lavoro a richiedere un maggior numero di ore di lavoro in presenza riguardano la cultura e il lavoro di squadra, tra cui una maggiore collaborazione tra team e stimolazione del pensiero creativo (54%) e un maggior impegno da parte dei dipendenti (48%), piuttosto che la produttività e i costi. Vantaggi che sono correlati a uno dei principali motivi di rinuncia del lavoro da remoto, ossia il mantenimento della cultura aziendale e del coinvolgimento dei dipendenti (53%).

Come spiega però Stephan Swinkels, partner di Littler, "Non è sufficiente l’intenzione di favorire una maggiore collaborazione, perché non possiamo dare per scontato che ciò avvenga solo perché le persone si trovano in ufficio: è compito dei datori di lavoro creare quest’opportunità".

In uno scenario del lavoro che cambia, un fenomeno nuovo ma decisamente in crescita è quello dei cosiddetti "nomadi digitali": i dipendenti che lavorano in un Paese diverso da quello in cui si trova la sede dell’azienda. La quota delle aziende che hanno nomadi digitali sta crescendo - dal 61% del 2021 al 73% ora - e per loro si presentano sfide legali anomale, che rendono impegnativo comcretizzare davvero la promessa del lavoro ovunque.

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