La Cina sta conquistando il predominio in molti campi della ricerca tecnologica e dell’innovazione, compresi quelli più interessanti per l’IT del prossimo futuro
Da sempre il confronto tra nazioni si gioca anche sul piano dell’innovazione tecnologica. Detenere un primato tecnologico significa di fatto poter influenzare pesantemente le supply chain globali che sono collegate a quella tecnologia. E quindi, se quella supply chain è critica per le altre nazioni, avere un primato su di esse. L’innovazione, in un certo senso, è potere. Un potere che deriva dalle attività di ricerca e sviluppo, dunque esaminare chi sta guidando oggi queste attività permette di capire come potrebbe essere la geopolitica del prossimo futuro.
In questo senso l’Australian Strategic Policy Institute ha lanciato un segnale forte, affermando che “le democrazie occidentali stanno perdendo la gara tecnologica globale”, a favore della Cina. Le valutazioni dell’ASPI derivano da un’analisi di quanta innovazione le nazioni hanno “prodotto” - in termini di pubblicazioni scientifiche di alto impatto e di ricercatori coinvolti - nel periodo 2018-2022, per le 44 aree tecnologiche considerate più importanti. Combinando questa analisi di oltre due milioni di pubblicazioni con uno studio del flusso dei ricercatori tra le varie nazioni, è possibile scattare una istantanea della “potenza tecnologica” dei vari Stati.
Il risultato di queste analisi è il Critical Technology Tracker di ASPI, il quale dà in prima battuta un risultato netto: la Cina è già il Paese leader in 37 comparti tecnologici chiave su 44. Non solo: in 8 comparti c’è un rischio elevato che Pechino detenga presto il monopolio dello sviluppo tecnologico, perché i suoi parametri di “efficienza” nella produzione di conoscenza sono nettamente superiori a quelli delle altre nazioni. In altri 17 comparti, il rischio di monopolio esiste ma è ad un livello più basso.
Nei 7 comparti tecnologici che la Cina non domina, la posizione di leader è occupata sempre dagli Stati Uniti, con la Cina come seconda. Ma l’innovazione non è una partita a due: una decina di nazioni si mette in gioco. Cina e USA comandano largamente perché per innovazione “prodotta” sono al primo o al secondo posto in tutti i comparti tecnologici. Ma pesano anche Regno Unito e India (entrambe tra le cinque nazioni più innovatrici di 29 comparti tecnologici su 44), come anche Corea del Sud (20) e Germania (17). E, più indietro, un gruppo con Australia (9), Italia (7), Iran (6), Giappone e Canada (4).
L’ottica di ASPI è prettamente geopolitica e quindi valuta in maniera più attenta le tecnologie che possono portare più vantaggi lato Difesa. Per questo il cluster tecnologico chiave per ASPI è quello in cui confluiscono avionica, droni, robotica, satelliti, lanciatori, tecnologie di propulsione di nuova generazione. Un cluster che è anche quello in cui l’Italia si posiziona meglio: nella Top 5 per tre tecnologie su sei, terza per la componente droni e per quella satellitare, quarta per la parte di robotica avanzata. Il confronto diretto è però tra USA e Cina, con Pechino che ha distanziato Washington per le nuove tecnologie di propulsione e per la componente droni/cobot.
Altri tre cluster più tecnologici sono considerati particolarmente importanti in prospettiva: l’intelligenza artificiale, le tecnologie quantistiche e i materiali avanzati (insieme alle nuove tecniche per il manufacturing). Detto subito che l’ultimo cluster comprende ben 12 sotto-ambiti e che tutti sono a predominio scientifico cinese, esaminiamo meglio i primi due, che hanno implicazioni di interesse anche per il mondo IT.
In campo AI si parla sempre delle innovazioni della Silicon Valley, ma per molte tecnologie propriamente di AI (algoritmi, acceleratori hardware, machine learning) o indirettamente collegate (data analytics, 5G/6G, comunicazioni ottiche, blockchain, cyber security), Pechino sta producendo molta più conoscenza dei rivali USA. Che mantengono un minimo vantaggio solo in tre ambiti: lo sviluppo dei sistemi di HPC, la progettazione di chip evoluti (anche se la realizzazione dei chip è al 90% taiwanese) e le tecnologie di elaborazione del linguaggio naturale (NLP).
Anche per il quantum computing sta accadendo lo stesso: i riflettori sono sulla Silicon Valley, mentre la Cina distanzia gli USA in diversi ambiti. Non per il quantum computing in senso stretto, perché qui sono le IBM e le Google del caso a guidare e la ricerca universitaria è valida anche in Europa. Ma Pechino si è portata molto avanti nei comparti correlati della crittografia quantistica e delle comunicazioni quantistiche, e mantiene un piccolo margine nel campo dei sensori quantistici.
La massiccia presenza cinese in tutti i comparti tecnologici chiave non dovrebbe sorprendere nessuno. Da decenni il Governo cinese sottolinea l’importanza che la tecnologia e la ricerca scientifica hanno nel consolidare la Cina come superpotenza globale. Il cosiddetto tecno-nazionalismo cinese non è quindi affatto una novità e piani come Made in China 2025 o AI 2030 hanno espresso chiaramente la volontà di Pechino di essere leader - e anche, ove possibile, autosufficiente - nei mercati del futuro. La strategia funziona: basta guardare al mondo del 5G.
Tutti i campi della ricerca tecnologica mostrano una dinamica da tenere presente: il “talent flow”, ossia lo spostamento dei ricercatori – con le loro skill ed esperienze - tra nazioni diverse. Analizzando gli autori delle pubblicazioni scientifiche più importanti e le loro carriere, si nota che moltissimi studenti/ricercatori cinesi si laureano in Cina ma seguono un percorso di approfondimento post-laurea negli Stati Uniti. Finito questo percorso, emigrano nuovamente e perlopiù tornano in Cina.
Questo fenomeno consente alla Cina di capitalizzare non solo la già elevata capacità formativa delle sue istituzioni, ma anche le conoscenze sviluppate da università e centri di ricerca esteri, in larga maggioranza americani. Sembra un dettaglio ma non lo è, perché a fare ricerca di rilievo sui temi tecnologici più importanti sono in pochi: la University of California, l’Accademia Cinese delle Scienze di Pechino, lo Indian Institute of Technology, la Nanyang Technological University di Singapore, la University of Science and Technology of China di Hefei, qualche laboratorio nazionale di ricerca negli USA.
E l’Italia? Non ce la possiamo giocare con i colossi californiani o cinesi, ma in questo “circolo ristretto” della ricerca pregiata qualche ateneo nazionale c’è. Non tra i primissimi, ma almeno nella Top 20 di due settori: le Università di Bologna e di Catania per la ricerca in campo semiconduttori, i Politecnici di Milano e di Torino per il lavoro svolto sui nuovi materiali e sulla produzione additiva.
Il fatto che una nazione come l’Italia possa apparire in buona posizione nell’analisi ASPI, superando nazioni più ricche e popolose, dimostra indirettamente la validità di uno dei punti chiave per la ricerca innovativa secondo il think tank australiano: non serve avere un grande volume di ricerca e sviluppo di qualità medio-bassa, serve perseguire filoni di ricerca davvero innovativa che portino effettivi passi in avanti al mercato. Un modo di gestire la ricerca tutt’altro che banale, perché richiede tempo, strategia, talenti, fondi.
La Cina ha potuto combinare tutto quello che serviva a una crescita guidata dall’innovazione perché le sue dinamiche sono più semplici rispetto a quelle delle nazioni occidentali. La “guida” è unica, si muove per piani a medio-lungo termine e le sue strategie non sono messe in discussione. Anzi, entità pubbliche e aziende (più) private si allineano con quello che viene chiesto dal Governo di Pechino. Poche altre nazioni – forse solo alcune della Penisola Araba – possono fare oggi qualcosa di simile portando risultati significativi.
Nelle nazioni occidentali questo approccio non è praticabile. Servono quindi piani di intervento nazionali e transnazionali, che peraltro incominciano a vedersi con una certa regolarità. Servono anche strategie di finanziamento in cui il settore pubblico inizia a spingere la ricerca applicata in un determinato ambito tecnologico e coinvolge poi indirettamente il settore privato. Solo in questo modo si riesce a creare una massa critica di fondi, personale e competenze.
La sinergia pubblico-privato serve anche perché le imprese tecnologiche stanno mostrando, in questi ultimi anni, un approccio poco solido all’innovazione: la gestiscono in una visione a breve termine che fa forse bene ai risultati finanziari trimestrali ma non certo all’innovazione strategica di lungo periodo. È troppo alto il rischio che il mercato, lasciato a sé, vada tutto verso l’innovazione del momento (oggi sarebbe l’AI) e trascuri altri campi ugualmente importanti.
Anche per questo ASPI suggerisce uno scenario un po’ estremo in cui le nazioni definiscono accordi formali per distribuirsi i compiti di ricerca da svolgere. Accordi in cui ciascuna sfrutta i punti di forza della sua ricerca e fa da “tech leader” per un dato settore, concentrando competenze e creando hub di innovazione e sviluppo di prodotti. In quest’ottica, le nazioni coinvolte dovrebbero anche dare vita a fondi sovrani dedicati in modo specifico alla ricerca e all’innovazione. Fondi da alimentare ogni anno con una parte del PIL e che dedicherebbero una quota minima a progetti “moonshot”: quelli così ambiziosi che il mercato non perseguirebbe mai.