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Intel: si chiude l'era Gelsinger. Tra diversi dubbi.

Pat Gelsinger ha capito le difficoltà di Intel ma la cura che aveva ideato evidentemente non è piaciuta agli azionisti: ora l'azienda resta ancora in mezzo a un importante guado

Tecnologie

Così Pat Gelsinger non è riuscito a concludere con successo la missiore che si era dato: riportare la corazzata Intel su una rotta di mercato più consona alla sua storia e, soprattutto, più profittevole. O forse in effetti ci è riuscito, ma una corazzata con tutta la sua inerzia richiede tempo per portarsi davvero sulla nuova rotta. Tempo che a Gelsinger non è stato dato, e magari il prossimo CEO potrà costruire anche sui risultati delle decisioni del predecessore.

Perché intendiamoci, la dichiarazione secondo cui Gelsinger esce da Intel perché ha deciso di andare in pensione non ha convinto quasi nessuno. È una spiegazione formale ma improbabile, conoscendo Gelsinger. A meno che non abbiano giocato considerazioni personali o di salute che, però, avrebbero dovuto essere quantomeno accennate nelle comunicazioni ufficiali. Perché l'annuncio avrà i suoi impatti finanziari.

E di finanza in questo frangente si deve parlare, più che di tecnologia, perché l'impressione netta è che Gelsinger sia stato convinto a lasciare sulla scia dei risultati insoddisfacenti di Intel. Con gli azionisti in fibrillazione, oggi, nessun CEO di qualsiasi azienda tecnologica riesce a lavorare con tranquillità - gli utili prima di tutto - e Gelsinger deve averlo capito.

Già, perché quello che Gelsinger aveva messo in atto era una rivisitazione profonda della Intel da cui egli stesso proveniva, una mutazione drastica ma dettata da una considerazione condivisibile: la classica Intel non aveva più la flessibilità e la reattività operative che sono necessarie nel mercato odierno della microelettronica.

Nessuno ha mai messo in dubbio le capacità di Intel nel design e nel packaging dei chip: in questi anni il dito è stato puntato sempre sulla sua parte di produzione, che ha perso qualche passo in corsa e non stava riuscendo a recuperarlo. Complice anche il fatto che quando tu sei il tuo principale cliente - e Intel lo è di se stessa, nella parte di produzione - certe inefficienze vengono metabolizzate quasi sistematicamente.

L'idea di Gelsinger era rivoluzionaria, per il DNA della sua azienda: liberare la Intel "progettista" dal peso delle foundry sotto accusa e imporre a queste ultime una cura da cavallo, trasformandole in un player del mercato globale, ossia facendole produrre per conto di chiunque. Ma era anche una buona idea? La storia dell'IT è fatta di grandi aziende che si sono "scomposte" per potenziare le singole nuove componenti, e di solito la cosa finisce sempre allo stesso modo: la componente più debole scompare.

Ipotesi di prospettiva

Difficile dire se nella mente di Gelsinger ci fosse già, in prospettiva, l'idea di vendere le foundry. Con i numeri che Intel fa adesso non sarebbe così strano, e già si è parlato di un interessamento in merito della taiwanese TSMC. Ma il comunicato ufficiale che ha annunciato la sua uscita sembra andare in una direzione nettamente opposta: "returning to process leadership is central to product leadership", ha spiegato Frank Yeary, Frank Yeary, ora Executive Chair del board di Intel.

Legare la leadership di prodotto alla leadership di processo, e quindi della produzione, non va molto d'accordo con l'idea della cessione delle foundry. Dal che si conclude che per il board Intel il modo oggi migliore per creare valore per gli azionisti sia mantenere Intel saldamente intera e migliorare tutte le sue parti.

Questo, va detto, richiede una visione chiara del mercato e una buona capacità di cambiamento. Perché Gelsinger aveva certamente ragione: la classica Intel non può stare a galla in uno scenario in cui il suo core business storico - x86 nei data center - è attaccato da più parti. Non più solo da AMD, che è comunque in crescita, ma da un player inaspettato (Nvidia) e da tutto il mondo ARM.

La scelta di due co-CEO è in questo senso significativa: dare un segnale di stabilità e di focalizzazione su quello che certamente rende. Così i co-CEO sono David Zinsner (un CFO, il massimo della stabilità e del concetto di valore aziendale) e Michelle Johnston Holthaus, a cui faceva capo il quasi inattacabile business PC. Manager validissimi, certamente, ma a cui non si può chiedere cosa Intel voglia diventare da grande ora che il mondo sta cambiando.

E non dimentichiamo che la tecnologia nei prossimi anni sarà sempre più soggetta a considerazioni geopolitiche. Una Intel nuovamente forte risponde al mantra "America first" che caratterizzerà la prossima Amministrazione Trump. Forte nella capacità progettuale - e qui non c'è troppo da migliorare - ma forte anche nella capacità produttiva "in casa": le foundry americane di Intel saranno quindi sempre più strategiche. Anche se questo non vuol dire che debbano per forza restare in mano a Intel: basta che la produzione "Made in USA" continui a crescere.

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