Le aziende tech della GenAI statunitense chiedono a Washington una tutela forte dei loro interessi e l’eliminazione di tutto ciò che percepiscono come freno.
Sta diventando difficile commentare con termini equilibrati l’approccio che le principali aziende americane del mercato GenAI hanno deciso di seguire nello sviluppo del proprio business. Certo, si deve tenere presente che la stragrande maggioranza di questi vendor tecnologici sta bruciando e brucerà nel prossimo futuro decine e centinaia di miliardi di dollari, per fare GenAI, senza a quanto pare portare in cassa - Nvidia esclusa - un ragionevole utile (non fatturato, veri guadagni). È comprensibile quindi che ci sia un certo nervosismo nell’aria.
Difficile però non far notare che le tattiche di queste aziende tecnologiche sempre più spesso sconfinano in una sorta di “aggressività” commerciale che assume anche tratti di colonialismo digitale. Stavolta tocca (ancora) a OpenAI, che in una lunga lettera a commento del futuro AI Action Plan americano chiede forti ma anche discutibili tutele per il predominio statunitense in campo AI. Al dibattito ha partecipato anche Google, che in maniere diverse ha ribadito i medesimi concetti su due punti importanti: il copyright e la privacy di determinate informazioni.
Ora, non è un segreto che OpenAI abbia addestrato i suoi algoritmi di GenAI usando liberamente dati e contenuti presenti su Internet, anche quando questi dati e contenuti erano (e sono) esplicitamente protetti da copyright. E lo sa benissimo anche OpenAI, essendosi più volte rifiutata di indicare quali dati avrebbe usato per addestrare ChatGPT. Ed è anche ironico che poi sia stata OpenAI stessa a gridare al plagio contro DeepSeek AI che, a quanto afferma OpenAI, ha costruito il suo LLM partendo dal lavoro della società americana.
Quello che OpenAI sostanzialmente chiede adesso al Governo USA è la ratificazione ufficiale del “fair use” per tutti i dati che sarebbero necessari per continuare ad addestrare i nuovi modelli di GenAI. Perché il rischio (concreto, vero) è che non ce ne siano più abbastanza, e a breve termine. Se la questione fosse solo statunitense, potrebbe anche interessarci poco. Il problema è che OpenAI propone la ratificazione e di fatto l’imposizione del fair use preventivo globale, un “colonialismo dei dati” in cui le aziende americane non devono essere fermate dalle leggi che, nelle altre nazioni, impediscono l’utilizzo indiscriminato dei dati nelle applicazioni di AI.
Il riferimento principale qui è ovviamente alle normative dell’Unione Europea. E la scusa è la solita che sentiamo da anni dai guru della Silicon Valley (intesa come luogo metaforico) e dai loro fan di tutto il mondo: comportandosi in modo etico e lecito si frena l’innovazione. Vecchia storia ma - ed è qui l’elemento chiave - Amministrazione USA nuova. Abbiamo visto lo stile di “negoziazione” che Washington sta adottando: le aziende tecnologiche USA possono anche chiedere di usarlo a loro favore, ma questo non vuol dire che al resto del mondo - e in particolare all’Europa - la cosa debba piacere o non vada sottolineata.
Quello che chiede OpenAI va letto con attenzione ed esaminato più in dettaglio di quanto facciamo qui. I punti fondamentali, dal nostro punto di vista, sono però abbastanza chiari. Per citare qualche passaggio chiave: “Dare forma alle discussioni politiche internazionali sul diritto d'autore e l'AI e impedire ai Paesi meno innovativi di imporre i loro regimi giuridici alle imprese americane e di rallentare il nostro progresso”, “Valutare attivamente il livello generale di dati disponibili per le aziende americane di AI e determinare se altri Paesi stiano limitando l'accesso delle aziende americane ai dati e ad altri input critici”, “Incoraggiare un maggiore accesso ai dati in possesso dei Governi: questo favorirebbe lo sviluppo dell'AI in ogni caso, ma sarebbe particolarmente importante se la modifica delle norme sul copyright limitasse l'accesso delle aziende americane ai dati di training”.
Ci sono pochi dubbi sul fatto che le raccomandazioni di OpenAI saranno in vario modo condivise dalle altre aziende statunitensi che stanno sviluppando tecnologie di AI. Ad esempio, Google nel suo documento spinge anch’essa per una ampia estensione del “fair use”, con eccezioni alle norme di copyright che “permettano l’utilizzo di materiale protetto da copyright liberamente disponibile per l’addestramento dell’AI senza impattare significativamente sui detentori dei diritti d’autore ed evitando negoziazioni altamente imprevedibili, squilibrate e lunghe (…) durante l’addestramento dei modelli”. E fin qui, nulla di nuovo.
Analogamente a OpenAI, Google chiede al Governo USA di “combattere le barriere straniere restrittive sull'AI che ostacolano le imprese e l'innovazione americane”. Le leggi non USA “dovrebbero favorire lo sviluppo della tecnologia dell'IA piuttosto che soffocarla”. E, soprattutto, “I Governi non dovrebbero imporre checkpoint normativi allo sviluppo di modelli di AI o all'innovazione dell'AI. Alcuni Governi stanno cercando di imporre oneri burocratici eccessivi allo sviluppo e alla diffusione dell'AI, spesso con modalità che colpiscono principalmente le aziende statunitensi”.
Insomma, per chi non se ne fosse ancora accorto oggi tecnologia e geopolitica sono strettamente collegate. E infatti la questione che sottolineiamo qui non è tecnologica: la GenAI ha certamente il suo valore e si affermerà nei tempi e nei modi che questo valore permette, né più né meno di qualsiasi altra tecnologia. La questione è politica, economica e sociale, e vede gli utenti europei in una posizione delicata. Le aziende tech statunitensi cercano attivamente la sponda dell’Amministrazione Trump - che peraltro hanno quasi tutte appoggiato e finanziato - per fare i propri interessi, e in quest’ottica qualsiasi freno si può eliminare passando non più per una reale competitività basata sul valore aggiunto ma per la forza politica di Washington.
È un meccanismo che cinicamente si può comprendere e che, in grado minore, ha coinvolto qualsiasi Governo USA (sull’AI nemmeno l’Amministrazione Biden è stata tenera). Ora però i modi della politica sono diversi, i miliardi in ballo sono davvero tanti e gli equilibri tradizionali tra interessi degli azionisti, innovazione concreta, tutele di mercato e impatti sociali sembrano scomparire. Ci si adegua, per carità. Basta che qui in Europa tutti - comprese le aziende utenti - tengano conto di cosa va a vantaggio di chi. E si spinga finalmente - senza lamentarsi sempre “che ormai quel treno è passato”, perché in molti campi non lo è - per lo sviluppo di tecnologie “Made in UE” che ci mettano (un po più) al sicuro contro le future tempeste della geopolitica applicata al business.