Autore: f.p.
"Assicuriamoci che il futuro dell'industria sia fatto in Europa": le parole della Presidente della Commissione UE, Ursula von der Leyen, durante il suo discorso sullo Stato dell'Unione suonano come uno slogan, certamente. Ma sono anche, in molti modi, un richiamo per tutti i Paesi europei e per l'UE nel suo insieme. Quando si tratta di tecnologia, non abbiamo autonomia strategica. E nell'odierna situazione geopolitica ed economica, questo rende l'Europa vulnerabile.
Siamo vulnerabili perché abbiamo poco controllo sulle filiere più innovative e più importanti. Le materie prime necessarie a fabbricare prodotti tecnologici provengono da Paesi non europei, tranne rare ecceziooni. La produzione tecnologica vera e propria avviene in Cina, in generale nell'Est asiatico. L'ideazione e la progettazione dei prodotti tecnologici si fa prevalentemente negli Stati Uniti.
In sintesi, la realtà è che in molti settori tecnologici, i Paesi dell'UE tradizionalmente sono solo clienti, non guidano l'innovazione. È certamente vero che in Europa siamo bravi, e anche molto, nella ricerca. Ma non tanto nell'applicarla.
Premesso questo, è anche vero che qualcosa sta man mano cambiando. Le varie iniziative che l'UE ha messo in campo per la transizione verso un'economia verde e digitale stanno rendendo l'industria europea più competitiva. Grazie soprattutto alla mobilitazione "organizzata" di finanziamenti privati e pubblici e alla definizione di specifici progetti industriali e di ricerca. L'EU Chips Act è forse il miglior esempio di questo nuovo stile europeo nell'innovazione applicata.
Ma resta un problema: i finanziamenti. La strada per la ricerca, l'innovazione e la produzione deve essere metaforicamente lastricata di fondi e per questo il bilancio dell'UE non può bastare. Se vogliamo che la produzione tecnologica all'avanguardia avvenga in Europa, adesso - come ha affermato il commissario Thierry Breton - "è il momento di prendere sul serio la questione dei finanziamenti".
Ma soprattutto è il momento di "pensare fuori dagli schemi per trovare il modo di finanziare collettivamente gli investimenti strategici" di cui abbiamo bisogno. Perché il bilancio a lungo termine dell'UE ha limiti definiti che non si possono "tirare" più di tanto. Serve qualcosa di diverso.
Ecco quindi il nuovo European Sovereignty Fund. Che ancora non esiste. Ma che - spiega Breton - "dovrebbe sostenere in modo diretto, rapido e flessibile progetti ben identificati di interesse per la sovranità dell'UE in qualsiasi settore del nostro spettro industriale". In altre parole, il nuovo fondo dovrebbe in primo luogo contribuire al finanziamento dei vari IPCEI avviati per specifici progetti industriali.
"Credo che dovremmo considerare la possibilità di finanziare questo Fondo attraverso il debito comune, come abbiamo fatto con successo per NextGeneration EU", afferma tra l'altro Breton. Così lo European Sovereignty Fund diventerebbe anche un modo per condividere investimenti tra Stati membri, aiutando quelli che "non hanno gli stessi margini di manovra fiscale per ridurre il rischio degli investimenti in tecnologie future e in capacità di produzione industriale". Uno sforzo condiviso per un bene comune. E anche più grande.
E anche se Breton conferma "l'apertura e l'impegno dell'UE per il commercio internazionale", spiega anche che nello sviluppo delle nuove politiche europee possiamo (e forse dovremmo) trarre ispirazione da programmi come il Buy American Act o lo US Chips Act. E se questo sembra un po' protezionistico... beh, pazienza. "Cerchiamo di non essere ingenui. È giunto il momento di mostrare più decisione nel difendere i nostri interessi strategici europei", afferma Breton.